Beppe Viola
Da vent’anni dipendente della Rai-tv, passaporto italiano, militesente, presunto capo di famiglia numerosa, non soltanto ignoravo le regole del football americano, ma non mi era mai passato per la testa di assistere a una partita.
Beppe Viola
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“Quello ha una faccia da interista.” A volte basta uno sguardo per determinare una tipologia: politica, religiosa, etica, ma anche calcistica. L’Ufficio facce funzionava così: a un tavolo Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Teo Teocoli e Beppe Viola fissavano chi entrava al bar e stabilivano a quale squadra appartenesse. Lombrosianamente non si sbaglia quasi mai.
Troppo poco rinchiuderlo nella gabbia di una definizione (“giornalista sportivo”), perché è stato molto di più, paroliere, umorista, anche sceneggiatore. Una vita spesa nella Milano che non c’è più, in un Triangolo delle Bermuda perfetto: stadio-ippodromo (il calcio e le scommesse sui cavalli), la pasticceria Gattullo (sede dell’Ufficio facce, anche lui era milanista) e il Derby (inteso come cabaret).
Renato Franco, Corriere della Sera
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Venticinque anni dopo Beppe Viola continua a essere un modello, un punto di riferimento, un esempio: irraggiungibile. Perché già allora lui stava davanti al gruppo. E lo si sapeva. Ma non si sapeva che il suo vantaggio fosse infinito, ed eterno. Beppe Viola era uno che, all’esame di Stato per diventare giornalista, davanti alla commissione presieduta da Enzo Biagi che credeva di metterlo in difficoltà chiedendogli: “Secondo lei, Fanfani nello schieramento della Dc sta a destra o a sinistra?”, rispose: “dipende dai giorni”.
Marco Pastonesi, Gazzetta dello Sport
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Di Beppe Viola ho un ricordo ben vivo, di quando lavoravamo insieme a Magazine, un’agenzia giornalistica che si era inventato con alcuni colleghi non soggetti a invidie e avrebbe dovuto consentirgli di fare “ciao” alla Rai dopo oltre vent’anni di sopportazione. Reciproca. Beppe era stufo di essere uno “strano, atipico”, di sentirsi dire che con il suo carattere non avrebbe mai fatto carriera. Non c’era bisogno di farglielo notare. A 42 anni aveva capito “la solfa”, in Rai era già passato dalla tv alla radio e ritorno, facendo quasi sempre pentire i pochi capi che lo prendevano in considerazione. Uno intelligente, diceva qualcuno di lui, ma intelligente è un termine equivoco, in Rai, allora come ora. Meglio dare incarichi ai lecchini, strisciano così bene. Anzi, come dicono ancora oggi i funzionari Rai, sono “sempre a disposizione”. Per capirci, in Rai aveva due soli amici, Bruno Pizzul e Carlo Sassi,
quest’ultimo definito con sano realismo “un ragioniere alla moviola”.
Gli volevano così bene in Rai che un brav’uomo anonimo lo denunciò perché in estate andava in video con la Lacoste sotto la giacca. L’accusa era che prendesse i soldi da “quelli del coccodrillo”. Indagine serrata e nessuna responsabilità accertata. Sortì solo una reprimenda a Viola, l’obbligo di camicia e cravatta, così “avrei sudato di più e meglio”.
Beppe aveva tra i suoi più grandi amici il giornalista Gino Rancati, capace di redarguire per radio anche il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, per il suo ritardo a un gp di Monza (1959 o 1960, le cronache non riportano l’episodio). Visto che per dare il via dovevano aspettare l’illustre ospite Rancati disse: “Chi occupa una carica di rilievo dovrebbe dare il buon esempio”. Licenziato in tronco, il giorno dopo. Per Viola, Rancati era un eroe.
Sergio Meda, panorama.it
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La carenza di calcio provoca dei fenomeni curiosi, tipo richiamo verso la lettura, la meditazione, incupimento del tono psichico generale, alcolismo, gioco del tennis, aeromodellismo.
Beppe Viola
Da sinistra: Ciccio Graziani, Beppe Viola, Gianni Rivera e l’ex direttore della Gazzetta Gualtiero Zanetti Mulas.
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Non è invecchiato, Beppeviola, morto il 17 ottobre 1982, dopo una telecronaca, infarto o ictus o giù di lì, non che facesse proprio una vita da atleta e neanche da santo, tra svapore e boeri, bianchini e scommesse, Rai e marchettificio, caffè e ammazzacaffè, nonché moglie e quattro figlie che poi ricordano quei quarti d’ora, quegli accompagnamenti, quelle carezze, quegli “ossignùr” da farti venire i brividi per tanto smisurato amore. Beppeviola campava come giornalista, se diciamo sportivo è solo per dare un valore a questo mestiere che non è lavoro, ma intanto scriveva canzoni, sceneggiature, rubriche, libri, testi per cabaret e per il futuro, buoni sempre, anche adesso, anche fra un secolo.
Era lui, Beppeviola, quello che.
Marco Pastonesi, Gazzetta dello Sport
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“Un autentico derbycidio, un derby noiosissimo.” Così anziché mostrare le immagini di uno scialbo Milan-Inter, tirò fuori vecchi spezzoni di derby in bianco e nero, molto meglio del triste spettacolo che si erano dovuti sorbire in settantamila a San Siro. Beppe Viola era uno così, dalla cifra inconfondibile. Servizio su un torneo sotto la pioggia: “Per uno che non sappia di golf, lo strumento più indispensabile pare essere l’ombrello”. Oppure costretto a commentare una sorta di Giochi senza frontiere su ghiaccio: “Vi farà meraviglia che io mi sia compromesso con una manifestazione del genere, ma sono un impiegato della Rai con figlie a carico”.
Renato Franco
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Vigilia di un derby meneghino (lontano anni luce da quello odierno degli infidi pseudogiornalisti
ultrà e degli scienziati del pallone), il Beppe passava all’attacco. Intervista esclusiva, mai vista prima su questi schermi, all’abatino Rivera: trattamento come il portiere, sì, ma del condominio di via Lomellina. Il cortile delle prime partite in “scarp de tenis” con il fratellastro Enzo, Jannacci. Un servizio spiazzante (aperto da: “Nessuno si occupa di quelli che prendono il tram”, Jannacci dixit) quanto un rigore del Golden Boy: televisione avanti di vent’anni. Saggi originali, replicati fino all’ultima domenica che Viola rimase su questa terra, perché il più artistico e irregolare dei narratori del calcio in tv non poteva che andarsene, per sempre, nel giorno consacrato al dio pallone.
Pigiando tasti di brutto su una Olivetti compose per Il Giorno, per il mitico Linus su convocazione di Oreste del Buono, per l’Uomo Vogue e tutta quell’editoria di serie B che a lui però, padre di quattro figlie, serviva a tirare su la “rebonza” (il malloppo), a fare “markettificio”, per non andare a “babbo morto” (a credito) alla fine del mese. Partendo dalla strada e ascoltando la gente di quartiere, aveva rielaborato una grammatica da Romanzo Popolare. Già come Quelli che…, il film con Tognazzi e la Muti l’aveva scritto il Beppe, a quattro mani con Jannacci. E a Monicelli in regia, oltre alla sceneggiatura, gli era piaciuta anche la bella faccia di Viola, volto giusto per il ruolo del bigliettaio del cinema di periferia. […] Prima del derby e dell’ippodromo di San Siro […] veniva il Derby, il laboratorio teatrale dell’allegra brigata degli artisti e dei soci della ditta fisiognomica Ufficio Facce (“Quello ha la faccia da milanista! Accettasi scommesse.”) che aveva la sua succursale al bar Gattullo, in Porta Ludovica. Genius loci, luogo di degustazioni enogastronomiche con il panino-muratore del “signor Domenico” che è “un’opera d’arte italiana, ma costa ottantamila lire” commentava smozziccando e brindando alla bella vita con i suoi fratelli d’arte: gli eterni “saraffi” (complici) Cochi e Renato, Jannacci, Boldi, Villaggio e il giovane Abatantuono, il figlio della guardarobiera del Derby. Zingarate notturne, schitarrando e buttando giù un’infinità di abbozzi di gag, programmi e canzoni con l’Enzo. Notti infinite a tirar all’alba in una Milano che era ancora bella. “Quando c’era Beppe, Milano era una città viva” ha detto Gianni Mura.
Il Beppe che ammoniva lo snobismo intellettuale e insegnava agli scribi di sport: si può parlare di politica e di sociale, anche se alla domenica devi raccontare di pali o di rigori non dati.
Massimiliano Castellani, Avvenire
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“Beppe, cosa ne pensi della più grande squadra italiana, il Catanzaro?”
“La venderei in blocco, e col ricavato mi prenderei un bel gelato al limone.”
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Era consapevole del distacco, per non dire emarginazione, derivanti dal suo modo “altro” di essere giornalista sportivo. “Tengo duro per migliorare il mio record mondiale di mancata carriera” diceva. E sorrideva.
Gianni Mura, la Repubblica
Marcò anche l’èra di una Milano che oramai non esiste più da, appunto, trent’anni: una Milano in parte bigotta e in parte affamata di cambiamenti, in cui il fermento era tangibile, la voglia di provare a uscire dai canoni quasi una necessità: Dario Fo, Enzo Jannacci, Cochi e Renato e Beppe Viola riuscirono a creare un linguaggio nuovo, mischiato con un milanese che faceva tenerezza e uno sguardo a chi, e ce n’erano tanti, non era nel radar del successo e invece aveva dentro una poesia e un senso di giustizia da invidiare. Fo con la sua lente sulla storia di quello che stava ai margini e osservava momenti che cambiarono il corso della storia; Jannacci con i suoi pali della banda dell’ortica, fuori a aspettare il bottino che vien su a cento lire e Cochi e Renato, con i loro poeti ottusi e i loro contadini con delle verità semplici e rivoluzionarie. E mio padre, Beppe Viola, che fece lo stesso con Rivera, con Paolo Rossi, o con Graziani, a cui chiese se tra gli azzurri c’erano degli omosessuali.
Marina Viola, smemoranda.it
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Il pugile: “Come vado?”
L’allenatore: “Se l’ammazzi fai pari”.
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Si chiamava Beppe Viola e anche lui, involontariamente, ha generato un -ismo: il “violismo”, quello di chi vuol fare il Beppe Viola senza esserlo, dei «simpatici» che vogliono essere simpatici senza esserlo. È il destino dei grandi: lasciarsi dietro un corteo di piccoli. Viola appartiene al gruppo dei maestri pigri, dei liberi, liberissimi docenti in Scienze della comunicazione i quali hanno esercitato il proprio talento ben prima che la comunicazione diventasse, contemporaneamente, becero talk show e seriosa materia universitaria, degli osservatori da bar e da tram
Daniele Abbiati, il Giornale
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Sarà diventato davvero adulto Beppe Viola? Avrà ritrovato le briciole in tempo? Poco importa, a pensarci bene, perché quella sua “romantica incontinenza”, quella sua fanciullezza impertinente l’ha resto ai nostri occhi – e lo rende ancor più oggi rileggendolo – uno dei più ironici, intelligenti, sensibili cesellatori delle nostre banalità quotidiane.
È davvero curioso che Beppe Viola lavorasse (quello era il “lavoro” vero, gli altri lavori erano hobby) sul calcio in tv, in un luogo dove ogni fantasia intelligente è spesso, sempre, negata. Eppure lui anche lì riusciva a stupire.
Chi amò e ama davvero il calcio non può non aver adorato quel faccione tondo e un po’ stralunato che sapeva essere tifoso con arguzia, sportivo con sapienza, là dove invece tifo e sport non si abbinano mai a qualcosa che non sia più che banale. Ci fossero stati più videoregistratori, allora, oggi gli interventi sul calcio di Viola sarebbero dei piccoli cult moovie.
Certo, oggi se Beppe Viola lavorasse anche in tv, probabilmente per lui sarebbe diverso. Oggi a volte c’è più spazio per l’ironia nello sport (raro), ma c’è anche più spazio per le banalità, il parlarsi addosso, per la provocazione messa al servizio dell’Auditel. Chissà cosa farebbe oggi il Beppe. Magari farebbe soltanto lo scrittore, o vivrebbe felice e lontano su qualche isoloto sperduto dei tropici…
Gino & Michele, Prefazione in Quelli che…, Baldini Castoldi Dalai editore, 1992
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“Beppe, le risposte sono tue o te le scrive qualcuno?”
“Ebbene sì, lo confesso, il mio dattilografo personale è Gianni Agnelli.”
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Quando vengono al mondo i bambini ricchi parlano già quattro lingue, sono abbronzati e hanno le mèche. I bambini poveri fanno una fatica mai vista a farsi capire almeno fino all’età dei sei anni quando incontrano una maestra appena arrivata da Benevento che insegna loro l’amore per il prossimo. Rinuncio volentieri al vittimismo e ammetto pubblicamente che avrei potuto essere coi primi se mio padre non si fosse ballato ogni mese la paga di aviatore in un posto chiamato San Siro. In questo posto corrono i cavalli, alcuni vincono, quelli sui quali scommetteva mio padre, quasi mai. Ecco perché all’età di anni sei ho incrociato anch’io una maestra proveniente da Avellino. Per lei era già un successo essere arrivata a Milano, figurarsi se le poteva interessare l’insegnamento della matematica e di altri fastidiosi intralci che separano il periodo più bello della vita dal più difficile. Quando mia madre chiese spiegazioni sul fatto che io non sapessi contare fino a venti dopo due anni di scuola, la maestra rispose che ero proprio un bel bambino e che lei mi teneva dentro il cuore. Mia madre non si occupò più della scuola e io ne trassi grandi benefici. Appena fui in grado di giocare un pacchetto di sigarette a carambola con ottanta probabilità su cento di vittoria, la convinsi che il mondo della scuola era molto cambiato rispetto ai tempi suoi. “Non danno più le pagelle da firmare, né pretendono di incontrarsi coi genitori. C’è un metodo nuovo che assegna agli studenti la massima libertà. Sono loro che decidono quando andare e non andare a scuola, quando devono essere interrogati, vaccinati, rimandati.” Mia madre era una donna eccezionale. Lo capii una mattina quando venne a svegliarmi dicendo: “Fuori c’è una neve mai vista, fa un freddo cane. Fossi io te non andrei a scuola oggi. Meglio un asino vivo che un professore morto”. L’asino è vivo e vegeto, modestamente. Nel frattempo mio padre era andato a giocare sui cavalli del Venezuela per via di un licenziamento generale dovuto allo scioglimento della società aerea per la quale lavorava. Penso che mio padre abbia fatto bene a ballarsi i soldi sui cavalli perché se ne avesse lasciati in giro un po’ per casa li avrei fatti fuori io, magari al bigliardo dove, tra l’altro, si respira anche poco per colpa del fumo. […] Insomma a scuola non mi feci vedere per un bel pezzo, diciamo per l’intero anno. Ebbi il coraggio di meravigliarmi, anzi di scandalizzarmi, quando leggendo il risultato scoprii di essere stato respinto. “Ma come? Se non mi conoscono neanche? Avrebbero dovuto scrivere disperso, mica respinto.” Mia madre fu condita via con un “Le solite tre materie, mamma. Tranquilla anche quest’anno ce la farò.” Invece niente. Per colpa della madre di un mio compagno, venne a sapere la verità nel modo sbagliato. Una telefonata di vigliaccheria. “Ho saputo che suo figlio, signora Viola, è stato respinto. Mi dispiace molto.” Ho cominciato a credere nelle spie, nella cattiveria umana. Per mia madre fu un’offesa gravissima. “D’altra parte,” mi disse “sei troppo grande per essere anche intelligente. La Natura è giusta, distribuisce un po’ qua un po’ là. Il lusso chiamato scuola non ce lo possiamo più permettere. Trovati un posto e che Dio ti assista”. Il mio Dio si chiama Liverani Vito e fa il fotografo. […] Mi raccomandò ai redattori dell’agenzia giornalistica per la quale lavorava. Entrai a Sportinformazioni come collaboratore e poi fui assunto a trentamila mensili, comprese le domeniche, le ore notturne e tutte le altre feste del calendario. Conobbi giornalisti destinati poi a carriere rispettabilissime. A quei tempi però se la passavano male pure loro per via del padrone che non mollava una lira in più nemmeno sotto tortura. Lo chiamavano Babbone perché, a modo suo, ci voleva bene. Il modo suo era il seguente: il giorno in cui morì mia madre venne a casa mia per confortarmi. Mia madre spirò alle sette del mattino, lui si presentò alle nove dicendomi: “Guardi, caro Viola, che per dimenticare dolori tanto grandi c’è soltanto il lavoro. Venga in agenzia e vedrà che passerà tutto”. Andai in agenzia.
Beppe Viola, Quelli che…, Baldini&Castoldi, 1992
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