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Sylvia Plath
Sylvia Plath


Intorno alle quattro del mattino, “in quell’ora azzurra, immobile, silenziosa, quasi eterna che precede il canto del gallo, il grido del bambino, la musica tintinnante del lattaio che posa le bottiglie”, Sylvia Plath oggettiva in simboli le sue idee e suggestioni creando una cosmologia personale che verrà apprezzata soltanto dopo la sua morte e che la farà diventare la poetessa più importante e tormentata del secolo scorso:
l’amore come un uncino, un gancio che afferra e tormenta la carne; un padre e un marito come fantasmi, ombre che legano, vincolano, incatenano; una madre come natura incurante e maligna o come bocca vorace che paralizza e inghiotte; l’io staccato da sé stesso che indossa la maschera dell’omicida, del vampiro che prosciuga il respiro; i manichini, le calve figure senza volto, che diventano le figurazioni della luna spettrale, ora bocca aperta in una O di dolore ora teschio col cappuccio d’osso; lo specchio e il lago come luoghi di riflessi che generano sdoppiamenti e moltiplicazioni ossessive; i fiori come simbolo di vitalità e femminilità feconda o come presenze abnormi, divoratrici, spossessatori della persona o raggelanti e funeree; le bende, la stoffa, il vento, le nuvole e l’aria come simboli di soffocazione, di imbavagliamento, di dissolvimento fisico, di incomunicabilità. Le immagini e le parole della Plath sono infilzate dal trattino lunghissimo—un arresto del respiro, una sosta sul vuoto prima di pronunciare l’indicibile, una “stasi nel buio”.

[…]
bacche occhi-di-negro
gettano scuri
uncini—
nere boccate dolci di sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi solleva per l’aria­—
Ariel

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.
Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.
Olmo    


Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
dove una volta al giorno la luce si allarga lenta
e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.
Tulipani


L’intera opera di Sylvia Plath riflette il profondo senso di disagio e di angoscia che distingue la letteratura americana del secondo dopoguerra. I rapporti interpersonali sono superficiali, i personaggi soli, schiacciati dalle istituzioni, oppressi dalla paura di non essere come la società vuole che siano e, comunque, vittime di un sistema che non consente a nessuno di scegliere liberamente. Non c’è tenerezza nei rapporti umani, neanche tra madre e figlia.

“A un tratto la mamma mi toccò il braccio e io la seguii nell’interno della sala. Ci mettemmo a sedere sopra un divano tutto a protuberanze che scricchiolava ad ogni movimento. Poi il mio sguardo scivolò al di sopra delle persone verso lo sfavillìo del verde oltre le tende trasparenti e mi sentii come se stessi seduta nella vetrina di un enorme magazzino: quelle figure attorno a me non erano persone vere, ma manichini, dipinti in modo da sembrare gente reale e atteggiati così da contraffare la vita.”
La campana di vetro


In un mondo dove cultura e politica restano, almeno ai livelli più elevati, appannaggio esclusivo degli uomini, la Plath cerca parole, immagini e miti femminili per far parlare alle donne una lingua che appartenga esclusivamente a loro. Le voci plathiane, con i ritmi e i suoni del corpo, evocano il momento del parto, la disperazione di un aborto, l’eccitazione del rapporto sessuale, l’orrore delle torture, lo stordimento dell’abbandono, la tenerezza della maternità. L’inquietudine, la paura e le incertezze delle donne si traducono in una continua e angosciante riflessione sulla propria capacità creativa, sulla fatica della scrittura femminile che si muove continuamente tra assenza e presenza.

“Voglio scrivere perché sento il bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione ed espressione della vita.”  

“Quello che mi spaventa di più, credo, è la morte dell’immaginazione. Quando il cielo là fuori è semplicemente rosa e i tetti semplicemente neri: quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità sul mondo, ma una verità senza valore. È questo spirito sintetizzante che io desidero, questa forza ‘plasmante’ che germoglia prolifica e crea mondi suoi con più estro e fantasia di Dio.”

“Di nuovo percepisco il divario tra i miei desideri e le mie ambizioni da una parte e le mie capacità nude e crude dall’altra. Ma continuerò caparbiamente a scrivere le mie tre pagine al giorno, anche se i miei supervisori sono sprezzanti.”
Diari



*

Riferimenti pittorici convivono nell’immaginario della Plath, espressioni del dissidio esistenziale, del disagio universale: le figure surreali, le calve figure senza volto, i paesaggi irreali, gli oggetti trasformati in idoli e amuleti di Giorgio De Chirico e gli esseri straziati e mutilati, gli oggetti distorti e maciullati di Francis Bacon.

Mamma, mamma, quale zia maleducata
o cugina sfigurata e repellente
dimenticasti così sconsideratamente
d’invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore
dalla testa come un uovo da rammendo,
per dondolarla e dondolarla ai piedi,
al capo e a sinistra della culla?
Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l’orsetto coraggioso,
mamma, tu le cui streghe sempre sempre
finivano cotte in forno insieme al panpepato,
chissà se le hai viste, se hai detto parole
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intorno al letto,
senza bocca, senz’occhi, la testa calva tutte toppe? […]
Le muse inquietanti


Sui balconi dell’albergo c’è uno scintillio di cose.
Cose, cose—
sedie a rotelle di acciaio tubolare, stampelle di alluminio.
Che salmastra dolcezza! Perché dovrei spingermi
oltre il frangiflutti maculato di telline?
Non sono un’infermiera, bianca e assidua.
Non sono un sorriso.
Questi bambini cercano qualcosa, con uncini e grida,
e il mio cuore è troppo piccolo per bendare le loro colpe tremende.
Questo è il costato di un uomo: le sue costole rosse,
i nervi che esplodono come alberi, e questo è il chirurgo:
un occhio come specchio—
una sfaccettatura di conoscenza.
Su un materasso a righe in una stanza
un vecchio sta scomparendo.
La moglie in lacrime è impotente.
Dove sono le pietre dell’occhio, gialle e preziose,
e la lingua, zaffiro di cenere.
Berck-Plage


 



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