Oblique Studio, esempio, esempi
oblique studio, artigianato e passione





facebook   twitter   instagram  
I libri fatti da Oblique
Le collane Greenwich e Gog per Nutrimenti
I libri che Oblique ha fatto con 66thand2nd
Watt, la rivista-libro di narrazioni e illustrazioni

Oblique è per il
software libero





sitemap
 
  Obliqui egregi nella storia e nel tempo
   
 

Roberto Palazzi


Con Roberto Palazzi ci siamo incontrati l’ultima volta il pomeriggio del giorno prima che si togliesse la vita, sette anni fa. L’occasione, neanche a dirlo, era passarmi un libro. Secondo lui da prendere in considerazione. In vista di che cosa? Roberto, per gli intimi «il Palazzi», era mio amico da tempo immemorabile. Da quando, ragazzino, nei primi anni Settanta avevo tradotto qualche testo surrealista per la casa editrice Arcana prima e poi per il fantomatico o mitico editore Pierre Marteau. Da allora gli incontri, gli scambi di libri, di indicazioni sui libri e quibusdam aliis erano proseguiti altalenanti ma senza interruzioni. Di recente altri suoi amici, Corrado Bologna e Mario Perniola, ne hanno raccolto i rari Scritti di bibliografia, editoria e altre futilità (come recita il titolo) in volume, arricchendolo dei loro ricordi. Più o meno contemporaneamente è uscito La collezione, sui trascorsi di collezionista di prime edizioni, soprattutto futuriste, di Giampiero Mughini, che oltre a dedicargli il libro ne traccia in apertura un breve ritratto. Da questa convergenza, e da altri fattori imponderabili, si fa ora un gran, o meglio, un piccolo parlare di Roberto. Per uno che a dispetto della stazza appariva perennemente in ombra, defilato, nel consesso culturale, la cosiddetta ironia della sorte sembra essersi presa troppo alla lettera. Gli interventi scritti di Roberto si segnalano per lo spunto sempre marginale, nascono da questioni sempre minime, infinitesimali, al limite del futile, appunto. Sono punture di spillo, portate da uno schermitore sopraffino ma sempre sulla difensiva, capaci tuttavia di sgonfiare uno dei tanti monumenti semoventi di sé stessi in circolazione. In certi casi, quando affrontava argomenti da lui ritenuti territorio mio – un Céline, una Simone Weil – chiedeva qualche conferma o chiarimento, per evitare quelle topiche, a volte così marchiane da passare inosservate, che riscontrava ovunque posasse l’occhio di rapace imprescindibile nel suo mestiere. E qual era questo mestiere? Roberto vendeva libri, si potrebbe dire. Ma come si fa a dire che venda libri uno che i più belli, i pin preziosi, i più concupiti, li custodisce gelosamente, li tiene per sé o, generosamente, li regala? La sua doveva essere una strategia misconosciuta per concentrare e far circolare in dose commisurata al recipiente la materia definita «libresca», la linfa vitale, e mortale, racchiusa nella pagina.
Non basta. Aveva ideato una rivista, Futilità, sottotitolata nonsense, pettegolezzi, vanagloria, periodico perversamente pentamestrale e rigorosamente fuori commercio, con tirature a dir poco limitate e programmaticamente stravaganti. Più stravagante ancora, i soli sette numeri usciti fra il 1977 e il 1980 sono contrassegnati da sigle come 0.0,1 o 2,6. Lasciano un sospetto di agente segreto con licenza di stampare o di trattatello se non logico-filosofico quantomeno patafisico. Chi avrebbe avuto l’incoscienza di pubblicare ogni cinque mesi una rivista del genere? E chi di pubblicarci? Quasi nessuno, a dire il vero. Quando qualcuno dei pochi lettori aveva contestato – erano i tempi – la presunta oscurità di un breve ciclo di poesie pseudonime apparse nel numero 1,1 del fascicolo, il Palazzi aveva risposto che quella – secondo noi, si era sbilanciato a dire – era poesia. Dev’essere stata l’unica volta che l’ho sentito usare quel plurale. Dalla rivista erano rampollati i Quaderni di Futilità, rassegna desultoria di libelli di ogni taglio, possibilmente ridottissimo, che proponeva testi eccentrici, devianti, folli, falsi, apocrifi e, perché no, inesistenti.
Da dove viene la scelta di intitolare la propria impresa alla futilità? Ho sentito avanzare ipotesi filologiche e perfino politiche, o meglio antipolitiche, in antitesi all’«impegno» allora in voga; non l’ipotesi più ovvia, quella più bibliorientata, accreditata dallo stesso Palazzi: futilità rimanda al delizioso romanzo omonimo di William Gerhardie, che Celati aveva da poco tradotto, un libro molto amato da Roberto. All’altro capo dell’intestazione, vanagloria rinvia a un altro romanzo, di Ronald Firbank stavolta, il leggendario dandy. E Roberto a modo suo era un vero dandy. Quanto al nonsense – consapevole, meglio se accidentale – quello ha impazzato e seguita a impazzare senza freno, e lui ci sguazzava come un porco nel brago. Non suoni offensivo. Il Palazzi editore – che anche questo era – era intenzionato a pubblicare uno dei suoi singolari, unici, libretti dedicati agli animali (topi, talpe, gufi, civette & Co) anche sul porco – in tutte le sue benemerenze.
Ma l’uomo ha chiuso i conti con il mondo in un modo che, agli occhi dei più, non era da lui. Dopo oltre trent’anni sono molti i ricordi accumulati. Uno è tornato con prepotenza e vividezza alla ribalta. Intorno alla metà degli anni Settanta mi dilettavo di programmazione in un cineclub della capitale e Roberto, come capitava spesso, era venuto a uno spettacolo. Splendore nell’erba era il film, di Elia Kazan. Durante la proiezione lo avevo visto alzarsi e lasciare la sala. All’intervallo lo avevo trovato seduto fuori sulla gradinata e di fronte alla mia curiosità per quella strana uscita aveva ammesso che il tentativo di suicidio della protagonista, interpretata da Natalie Wood, lo aveva turbato. Quanto basta da costringerlo a interrompere la visione del film. D’accordo, è solo un filo della mia memoria. Il filo è rosso.
Roberto, fragile vichingo, folletto mastodontico, viveva come tutti con una lama puntata alla gola. Che con il tempo ha leso il corpo della psiche. Una volta che hai individuato la crepa, smarrito o relegato nel bazar, sei l’elefante e sei la porcellana. Tu sei quello, sentenzia una saggezza millenaria. Questo potrà costituire un’esperienza estremamente orientale ma non porta giocoforza a una salvezza. Adesione e alienazione si confondono. L’illuminazione sfoca in un riverbero. Inutile guardarsi in giro. Nell’ora della desistenza l’ecclesia silenziosa, sì quella goethiana, è silenziosa solo perché ormai da troppo tempo, da tutti, disertata. Roberto doveva essersi stancato di quella che timidamente chiamano tensione, del pipistrello che cerca di disincastrare le ragnatele alari piantate fra le scapole e involarsi. Allora il corpo, che non ha più paura, ricade a peso morto sulla lama e si raccoglie in terra in posizione fetale intorno al centro vuoto della solitudine. Torna a coincidere interamente con sé stesso. Il sangue scorre un poco, futile e fatale, dalla crepa. Per noi quello è passato. Qui, presente. L’accento cade sull’è.
Così, per futilità, per patriottismo – avrebbe detto qualcuno e avrebbe detto la stessa cosa –, per delicatezza anche lui ha perso la vita.
Con Roberto ci siamo incontrati il giorno prima del suicidio. Il giorno dopo avremmo dovuto rivederci per un appuntamento culturalmondano. Non si sarebbe presentato. Erano occasioni che non amava ma che calamitavano in lui la mosca stercoraria, altro animale araldico del suo bestiario – ecco i pettegolezzi, unico termine del sottotitolo alla rivista da me finora tralasciato. Con scadenza capricciosa potevo sempre aspettarmi dal Palazzi una di quelle telefonate che esordivano così: facciamo un po’ di radio-serva. Pretesto a grandi risate, oggi misteriose, e con Roberto ne abbiamo fatte tante.
L’ultimo libro che mi ha sottoposto – e non era da lui spartire libri a caso fra i patiti – è un’opera del 1870; l’autore un errabondo un erudito un erotomane, Sir Richard Burton; il testo sui vampiri anche se in India.

Ottavio Fatica, “Una lunga spilla nel cuore”, Alias del manifesto, 25 luglio 2009





chiudi