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John McEnroe
John McEnroe



“So che giocare contro di me poteva essere un’esperienza frustrante, ma ero convinto che il mio modo di giocare fosse avvincente da guardare: credo che anche i miei avversari migliorassero il loro stile, quando erano alle prese con me. Essere un counter puncher richiede una mentalità diversa. Wilander e Borg, due maestri in quest’arte, erano sempre ad attendere la tua mossa successiva, ti aspettavano al varco come se dicessero lo so fare meglio di te.
Io preferivo prendere l’iniziativa: giocare d’anticipo, agire e vedere se gli avversari erano in grado di reagire ai miei attacchi. Li provocavo: secondo me è una strategia molto più interessante. O si vince o si perde. Non c’è bisogno di aggiungere che ho sempre preferito vincere.”
John McEnroe, Non puoi dire sul serio, Piemme

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Il più creativo, talentuoso, egocentrico, irascibile tennista di tutti i tempi. Mancino, il genio del serve and volley, fascia rossa e capelli ricci, impossibile dimenticarne la classe, gli eccessi e la spettacolarità del gioco. McEnroe si impone grazie ai colpi imprevedibili, alla grinta, all’anticipo sulla palla, alla sensibilità del tocco – memorabili le smorzate e le rotazioni velenose –, al dritto piatto, allo slice mancino del servizio. La sua personalità e il suo gioco oscurano e intimoriscono gli avversari. McEnroe, soprannominato “The Genius”, sul campo perde spesso la pazienza, contesta le decisioni arbitrali, fa a pezzi le racchette, lancia insulti ai giudici di linea e di sedia, a spettatori a caso tra il pubblico, ai raccattapalle, a un ciuffo dell’erba di Wimbledon, a una nuvola passeggera mentre sta per battere il servizio, a sé stesso. La sua celebre frase “You cannot be serious” (“Non stai dicendo sul serio”) rivolta a un arbitro diventa il titolo della sua autobiografia. Conquista sette titoli del Grande Slam, quattro Us Open e tre Wimbledon, ed è il numero uno del mondo per quattro anni consecutivi, dal 1981 al 1984. Terminata la carriera, rimane nel mondo del tennis come commentatore degli incontri per Nbc e Cbs negli Usa e per la Bbc nel Regno Unito e come allenatore della squadra americana di Coppa Davis. Padre di sei bambini, appassionato di musica rock e amante dell’arte, ha aperto una prestigiosa galleria d’arte a New York nel quartiere di Soho.

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John McEnroe non era tanto alto, eppure si può ragionevolmente affermare che sia stato il miglior giocatore di serve and volley di tutti i tempi; ma d’altronde, McEnroe era un’eccezione rispetto a tutti o quasi gli schemi di prevedibilità esistenti. Al suo apice (diciamo dal 1980 al 1984) è stato il più grande tennista di sempre – e il più dotato, il più bello, il più tormentato: un genio. Per me, guardare McEnroe che indossa una giacca blu in sintetico e fa quelle ignobili telecronache colorite, zeppe di luoghi comuni idioti, è come guardare Faulkner che fa uno spot pubblicitario per una catena di negozi di abbigliamento.
David Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado, minimum fax, 1999

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In merito al genio di McEnroe sono confortato dall’opinione di Gilles Deleuze, il quale una volta si esercitò nell’ekphrasis di un suo tipico gesto: “Una specie di aristocratico metà egiziano metà russo… ha inventato un colpo che consiste nel deporre la palla, una cosa curiosa, non la colpisce nemmeno, la depone”. Ecco, al di là degli aspetti squisitamente tecnici (il servizio a catapulta, tutto in torsione; la risposta in chip and charge; il metodico, ma ogni volta diverso, serve and volley), è in questa gestualità rituale che consiste il suo genio. Delicato ma micidiale, virtuosistico ma infallibile. Genio non è sregolatezza: al contrario è fondare nuove regole. Di geni autentici il tennis ne ha conosciuti uno a decennio. McEnroe è gli anni Ottanta, Pete Sampras i Novanta, Roger Federer il decennio presente. Se in Mac si incarnanp gli anni Ottanta, suo bacino di coltura sono però i Settanta (esordì nel climaterico ’77, quando a Wimbledon arrivò in semifinale partendo – mai accaduto prima – dalle qualificazioni). Infatti McEnroe fu sì aristocratico, come vuole il filosofo; ma, anche, genuinamente punk. Non perché strimpellasse ogni tanto la Stratocaster, o perché la sua icona riccioluta mettesse a rumore l’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Ma per l’unione di talento impareggiabile e altrettanto sovrana maleducazione. Un’interpretazione buonista vuole che la proverbiale scorrettezza di McEnroe fosse preterintenzionale: che la sua rabbia folle, ai limiti dell’epilessia, fosse dovuta al fatto che non potesse ammettere limiti alla propria infallibilità. No: bisogna avere l’onestà di ammettere che McEnroe fosse insieme sublime e scorretto, angelo e demonio. Non si contano gli incontri nei quali un avversario in vantaggio, scosso da un Vietnam di recriminazioni, abbia finito per arrendersi indecorosamente a Mac.
Andrea Cortellessa, “Il mezzo secolo di Mac, genio aristo-punk”, Il Riformista, 15 febbraio 2009








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