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  Obliqui egregi nella storia e nel tempo
   
 


René Daumal

La porta dell’invisibile deve essere visibile

Non parlerò della montagna, ma per mezzo della montagna. Con questa montagna come linguaggio, parlerò di un’altra montagna che è la via che unisce la terra al cielo, e ne parlerò non per rassegnarmi, ma per esortarmi.

La montagna ha natura obliqua, l’orizzonte si sviluppa in linee inclinate che rincorrono l’oltreterreno, è terra ma è già ascesi, è il libro dell’obliquo supremo e metafora del cammino obliquo verso il sapere, dell’ascesi faticosa verso la conoscenza divina e naufragio in essa della conoscenza umana: il precipizio naturale diventa precipizio mentale.

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Nella lotta contro le altezze e le vertigini montane […] quanto mai è prossima la possibilità di ridestare, attraverso ciò che sembra un semplice esercizio del corpo […] un contatto con le forze primordiali chiuse dentro le membra: sì che l’agone fisico sia ad un tempo più che fisico, e nella riuscita vittoriosa sia quasi l’adornamento di qualcosa di non più umano […]. Nella vita – come, dopo Nietzsche, l’ha rilevato il Simmel – vi è questo potere strano e quasi contraddittorio, di portarsi a degli apici in cui un «viver di più» (mehr leben), la più alta intensità di vita – si trasforma in un «più che vivere» (mehr als leben). In questi apici, come calore che si trasfigura in luce, la vita, per così dire, si libera da sé stessa, non nel senso di una cessazione dell’individualità e di una specie di mistico naufragio, ma nel senso di un’affermazione trascendente di essa, nella quale l’angoscia, l’incessante tendere, bramare ed agitarsi, cercar fedi, appoggi e scopi degli uomini dà luogo ad uno stato di calma dominatrice. Nella vita, non fuori di essa, vive qualcosa di più che la vita […]. Appunto questa natura più profonda dello spirito che si sente infinito, sempre di là da sé stesso, sempre oltre ogni forma e ogni grandezza che trovi in sé o fuori di sé, anche se non in modo perfettamente conscio si sveglia e riluce nella «pazzia» di coloro che senza uno scopo materiale, senza una ragione, oggi in numero sempre crescente sfidano le altezze secondo una volontà che si impone alla fatica, alla paura, alla voce dell’istinto animale di prudenza e di conservazione.

Julius Evola, Meditazioni delle vette, a cura di Renato del Ponte, SeaR, Borzano R.E., 1997, pp. 31-32

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In René Daumal, la scalata definitiva all’Ultimo Verticale sublima le linee oblique riconducendole alla vetta che è centro del sapere: l’obliquità scopre la sua essenza nello spazio curvo, dentro il cerchio immenso del Tutto: così l’Eretico delle Ardenne raggiunge la forma di conoscenza più simile alla divinità, e indica contemporaneamente una via per la conoscenza di sé.

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Molto in alto e molto lontano nel cielo, al di sopra e al di là dei cerchi successivi dei picchi sempre più alti, delle nevi sempre più bianche, in uno splendore che l’occhio non può sopportare, invisibile per eccesso di luce, si erge la punta estrema del Monte Analogo. – Là, sulla vetta più aguzza della guglia più sottile, solo, sta colui che riempie tutti gli spazi. Lassù, nell’aria più fine dove tutto gela, solo, sussiste il cristallo dell’ultima stabilità. Lassù, nel pieno fuoco del cielo dove tutto arde, solo, sussiste il perpetuo incandescente. Là, al centro di tutto, sta colui che vede ogni cosa compiuta nel suo inizio e nella sua fine. […]
Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto […] Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.
Il Monte Analogo
, pp. 37-36

Il movimento obliquo è qui raddoppiato, verso la vetta del Monte Analogo, e verso l’uomo, nel tentativo di convincere della necessità di intraprendere il viaggio. Ma la legge che governa questo viaggio sottende sempre l’obbedienza al compiersi del cerchio, e la ragione ultima della salita diventa il ritorno, la discesa.

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René Daumal nasce nel 1908. Incontra sui banchi di scuola Roger Gilbert-Lecomte, con il quale fonda, nel 1928, il movimento Le Grand Jeu, attivo con una rivista dello stesso nome e alcune esposi­zioni. Il movimento dura dal 1928 al 1932 e, attraverso una ricerca esoterica della visione interiore, acquista una forza fra le più dirompenti tra le avanguardie storiche.
I suoi membri avevano pseudonimi segreti e cercava­no tutte le occasioni, tutti i me­todi, dalla droga al digiuno, dal­l’amore all’astinenza, dal cam­minare a occhi chiusi in una fo­resta di notte al fermarsi in completa immobilità per ore, per scoprire e perdersi nella realtà che si nasconde dietro le apparenze. Le loro più forti in­fluenze furono Alfred Jarry, l’eccentrico ciclista scrittore inventore della Patafisica e le antiche filosofie mistiche del­l’India (Lucio Pozzi).
Daumal muore, come Gilbert-Lecomte, giovanissimo, nel 1944, mentre lavora alla stesura del Monte Analogo.






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