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Luciano Bianciardi, occhio coperto, traduttore
Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi nasce a Grosseto nel 1922. La musica, le lingue straniere e gli studi classici caratterizzano la sua formazione. Protagonista della vita culturale del dopoguerra, si interessa con passione alle lotte operaie e alle dure condizioni di vita dei minatori della sua terra. Fine intellettuale, attento e caustico osservatore della realtà, partecipa alla creazione della Feltrinelli: prima come redattore, invischiato nelle ipocrisie e negli obblighi del lavoro in casa editrice, poi, dopo il licenziamento, come infaticabile traduttore. Scrittore, inizia la sua carriera con romanzi di spunto autobiografico, nei quali conduce un’analisi dissacratoria del mito dell’industria culturale e della società del boom economico, e raggiunge il successo con La vita agra nel 1962; giornalista, versatile e schietto, scrive di costume e di sport, di critica televisiva e cinematografica, collabora con diverse testate, anche con quelle più scandalose e snobbate – Playmen e il Guerin Sportivo – dal giornalismo italiano. Muore a Milano nel 1971 di cirrosi epatica.

                               
*

 […] Dovevo scegliere gli studi secondari e mia madre e mia nonna mi dissero che non c’erano alternative: le donne dovevano fare il liceo classico. Gli uomini, i ragazzi, beati loro, potevano scegliere anche lo scientifico. Io non lo volevo fare, il classico, perché mi piacevano la matematica e le lingue. Scrissi a mio padre dicendogli: “Io non lo voglio fare, vieni tu, perché io non ho gli strumenti, non ho la libertà, vieni tu, che mi parli sempre di libertà, a dirmi che cosa devo fare, perché io non lo so”. E aggiunsi: “Vieni, ma stavolta non andartene di corsa, rimani”. Lui venne e rimase due anni. Furono due anni in cui io credo di aver capito il suo concetto di libertà, che poi è stato definito anche “anarchia”. In quell’occasione mi disse: “Io penso che la scelta fatta da tua madre e tua nonna per te sia la migliore, perché la libertà – questa era una sua teoria, ovviamente – è saper demolire, ribaltare tutto ciò che si è faticosamente raggiunto. Quindi adesso avrai dieci anni di studio matto e disperatissimo, del quale capirai ben poco, però tutto questo sarà necessario per darti gli strumenti per poi, se vorrai, ribaltarlo”. Io credo che il suo concetto di anarchia e il suo atteggiamento anarchico consistano in questo: voler sempre ribaltare quell’equilibrio che faticosamente, in campo affettivo ma anche letterario, riusciva a raggiungere.[…]
Ecco, a proposito della rottura degli equilibri, questa credo sia stata la grande libertà di mio padre, la sua vera, profonda anarchia. La prima frattura l’ebbe negli anni Cinquanta, precisamente nel 1954. Era direttore, dal ’51, della Biblioteca Chelliana di Grosseto. Una vita e una situazione lavorativa e familiare tranquilla, un figlio, mio fratello più grande, di cinque anni. Si inventò il Bibliobus, cioè un furgoncino scassato fornitogli gratuitamente dal Comune, che lui stipava di libri – ne metteva dentro tanti, di vari tipi – e portava in giro per le campagne grossetane. Era una persona totalmente sprovvista di senso pratico, incapace di gestire cose come schede di richiesta e tessere. Andava insieme al suo collaboratore, Aladino, e gli diceva: “Mi raccomando, Aladino, andiamo a occhio”. Andare a occhio significava ricordarsi il libro, ricordarsi la persona a cui lo si era prestato ed eliminare tutto il passaggio di schede. Naturalmente andarono persi moltissimi libri, di questo si lamentò l’amministrazione comunale e lui si difese dicendo: “Meglio un libro rubato che un libro mai letto”.
Lui aveva una sorta di grande rispetto per il lavoro manuale, faticoso. Girando per le campagne capitava spesso nei villaggi minerari – adesso le miniere sono chiuse, ma allora, intorno a Grosseto, ce n’erano diverse: Ribolla, Boccheggiano, Montemassi. Lui andava a sedersi e attendeva la fine della gita (così curiosamente si chiama il turno in miniera) e l’uscita dei minatori, prendeva il caffè con loro, ci parlava. Diventò amico di quasi tutti.[…]
I minatori raccontavano i loro problemi, per esempio che a Ribolla c’era una galleria in cui si stava scavando a fondo cieco. E gli dissero: “È pericoloso, lo scriva lei sui giornali, perché è pericoloso, corriamo il rischio di saltare tutti per aria”. Il 4 maggio del ’54 la miniera saltò in aria, morirono quarantatré minatori. Fu un episodio che lo colpì moltissimo, questo: scrisse sul Contemporaneo, in occasione del funerale: “Quando le bare furono sottoterra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati. Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio che aveva già chiuso e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare”. Erano morti quarantatré, come diceva lui, amici suoi e lui non poteva fare niente. Scrisse articoli di fuoco.
[…] Trombadori gli propose, nel ’54, di andare a Milano per lavorare nella redazione della Feltrinelli, la nuova, grande, progressista casa editrice.[…] Alla Feltrinelli ovviamente un tipo come lui non poteva trovarsi bene perché anche già il fatto di arrivare in orario in ufficio era un grosso problema. Trovò vari amici e collaboratori, tra i quali Giampiero Brega, Valerio Riva e Fabrizio Onofri… però non gli piaceva quel lavoro: chiamava Giangiacomo Feltrinelli “il Giaguaro” o “Timberjack” e cercava sempre tutti gli escamotage per riuscire a conciliare il suo modo di lavorare con quello necessariamente burocratico di una casa editrice, sia pur nuova, sia pur di sinistra.
Un episodio per tutti: sia lui, sia Valerio Riva, sia gli altri che lavoravano alla Feltrinelli, all’inizio non guadagnavano molto e facevano una vita piuttosto grama, mangiando alle latterie, magari mezza porzione, mentre Feltrinelli era notoriamente miliardario. Una sera che erano tutti intorno a un tavolo delle riunioni, verso le sei del pomeriggio arriva “il Giaguaro” fresco di doccia, appoggia il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello del Bianciardi, voltato e rivoltato tre, quattrocento volte, e comincia a parlare di giustizia sociale e lotta di classe, per due ore. Mio padre non ne può più, alla fine si alza – gelo, perché non ci si poteva alzare quando parlava il padrone – guarda quel suo cappotto liso, batte la mano sul tavolo, prende il cappotto del Feltrinelli, se lo infila, si pavoneggia un attimo, si volta, poi alza il pugno e dice: “Viva la lotta di classe”, ed esce. È andato avanti per un paio d’anni con questo cappotto bellissimo e gli amici, che sapevano le sue condizioni economiche, gli chiedevano: “Ma come hai fatto, Luciano, a comprarti un cappotto così bello?”, “No, non me lo sono comprato, me l’ha regalato il Feltrinelli perché lui alla lotta di classe ci crede veramente”.
Fu licenziato – non potevano far altro – ma la colpa non era di Feltrinelli, semplicemente non era quello il lavoro adatto per lui: io ero molto piccola (era il ’57) però in seguito ne ho sentito parlare e mi è sembrato di cogliere in questo tutto sommato un certo senso di sollievo. Lui scrisse: “Mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. La verità, cara mia, è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici, gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera e riesce, non si sa come, a dare l’impressione fallace di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso”.
Feltrinelli, che non era uno stupido, capì le potenzialità di un rapporto di collaborazione esterna con Bianciardi e gli affidò dei lavori di traduzione. Da quel momento fu quella la sua vera occupazione. Diceva sempre: “Lavoro sei, otto ore al giorno, venti cartelle, anche di domenica, anche a Natale e Pasqua, e nei momenti liberi scrivo prosa mia”. Traduceva a una velocità impressionante, più di cento libri in tutta la sua vita, ottanta soltanto nell’arco di dieci anni: ritmi infernali, quindi. La vita agra, il suo romanzo più famoso, descrive appunto tali ritmi, quello che lui chiamava “il battonaggio”, perché si sentiva un po’ come un mercenario. Diceva: “Questo è il mio battonaggio, ma diuturno, io rivolto carte su carte”. La vita agra ebbe successo, 50.000 copie in dieci giorni, erano numeri altissimi per quell’epoca e forse anche adesso. Nel ’64 Lizzani ne trasse un film, poi venne il successo. Io mi ricordo che proprio quell’anno gli scrissi una lettera, dove dicevo: “Adesso sei un uomo di successo”; e la risposta bellissima fu: “Per me successo è participio passato del verbo succedere: a me è successo”.

luciano bianciardi

Il successo gli portò anche un certo benessere economico. Si divertiva ad andare in giro con Domenico Porzio, a fare presentazioni del libro, ma diceva: “Ho un po’ perso rispetto per me stesso perché sembriamo due comici d’avanspettacolo: sempre le stesse battute e soprattutto sempre con l’aria di dirle per la prima volta; sarà il caso che cambi vita”.
Montanelli lo chiamò al Corriere della Sera offrendogli – era il ’64 – trecentomila lire al mese. Rifiutò sostenendo di non poter collaborare con quel tipo di giornale. I funzionari della Rizzoli lo chiamarono per spiegargli che, scrivendo un libro all’anno di incazzature in prima persona singolare come La vita agra e facendo quella che lui definiva “la professione dell’incazzato”, poteva farsi la sua vita tranquilla, guadagnare come molti altri scrittori. Lui all’inizio parve d’accordo, dopodiché si presentò con un libro sul Risorgimento: alla Rizzoli si misero le mani nei capelli. Volevano che facesse la parte dell’arrabbiato italiano e quello si metteva a scrivere libri di divulgazione storica.
Secondo ribaltone della sua vita. Scrive La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969), Aprire il fuoco (1969). Il Risorgimento tutto sommato cominciava a piacere, i giovani scoprivano che accanto al generale Custer c’era un generale Ristori e che quel periodo poteva anche essere divertente. I funzionari della casa editrice cambiarono ritornello: “Lasciamo perdere la storia dell’incazzatura milanese, scrivici un libro così all’anno che va bene”. Il successo era discreto, anche se non paragonabile a quello de La vita agra. E lui, terzo ribaltone della sua vita, si mise a scrivere un libro di reportage di viaggio, Viaggio in Barberia (1969), rifiutò collaborazioni di prestigio per scrivere su testate allora definite “pornografiche”: Playmen, Le Ore, Kent, Abc ed Executive. E, pietra dello scandalo, per la quale sarà malvisto da tutto il giornalismo italiano, insieme a un altro scrittore e giornalista, che si chiamava Gianni Brera, cominciò a scrivere sul Guerin Sportivo.
Io credo che quella che definiamo adesso la sua anarchia sia sempre stata questa libertà di poter scegliere di ribaltare situazioni comode e redditizie. In questo sta la sua grande libertà, la sua grande forza e la sua, direi, grandezza.
Intervento di Luciana Bianciardi alla serata omaggio Luciano Bianciardi, un anarchico della scrittura tra Grosseto e Milano, Udine, primo febbraio 1997

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Per concludere: se qualcuno avesse da fare, qui a Milano, una rivoluzione, io ho un’idea da proporgli. Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati. Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro. Mille uomini, dico, disposti a far all’amore la notte del lunedì, verso l’alba. Disposti a chiamarsi ad alta voce, da un marciapiede all’altro, a sostenere che duecentocinquanta lire sono troppe, per un chilo di sedano. Disposti ad attraversare via Manzoni in canottiera, a entrare in ditta con mezz’ora di ritardo, a uscire dopo l’orario.
Datemi questi mille spericolati, e vi prometto che in mezza giornata la città sarà nostra: bloccata, congelata, esterrefatta, intasata, allibita, come se dagli spazi celesti fossero calati i marziani.

da Rivoluzione a Milano, l’Unità (ediz. piemontese), 3 giugno 1956

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È fatica di un uomo solo alle prese con un libro straniero, davanti ai tasti di una macchina, con una pila di fogli bianchi che faticosamente, uno dopo l’altro, si anneriscono.
da La vita agra

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Il fuori gioco mi sta antipatico, come tutte le regole
che limitano la libertà di movimento e di parcheggio.

Il divorzio, di qualunque tipo, è un rattoppo su qualcosa di finito male. La battaglia per il divorzio è una battaglia di retrovia.

Occorre battersi contro il matrimonio.

Se vogliamo che le cose cambino, occorre occupare le banche
e far saltare la televisione. Non c’è altra possibile
soluzione rivoluzionaria.

Interventi di Bianciardi sul Guerin Sportivo

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Caro Perrone, andiamoci piano, il nostro Risorgimento non fu poi così spassoso come tu credi, e i generali non furono tutti dei tattici esilaranti. Ne rammento uno che sapeva il fatto suo, Giuseppe Garibaldi. No, non è una mia fissazione: la presa di Palermo – fatto tattico incredibile, che non sono riuscito ancora a spiegarmi – suscitò esplosioni di “tifo” persino a Irkustk, in Siberia. Abraham Lincoln (tu sai chi fu), nel ’62, offrì a Garibaldi il comando di una armata nordista, e Garibaldi rifiutò, perché aveva in mente, pensa, l’impresa di Aspromonte. Lo so, un Garibaldi direttore della Nazionale ancora non è nato, e qualche allenatore somiglia di sicuro ai nostri generali abbacchiati del Risorgimento. La sconfitta è una vocazione nazionale. Ma per stavolta, abbi pazienza, non facciamo confronti. Auguriamoci che rinasca Garibaldi. Per la precisione: Scopino non è Garibaldi. È al massimo Pianell, forse Armando Diaz. Vince le battaglie perché non rompe troppo l’anima ai suoi soldati.
Risposta di Bianciardi a un lettore del Guerin Sportivo del 2 novembre 1970

bianciardi, la vita agra, copertina rizzoli






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