Percival Everett
Ferito
Non riconosco le mie impronte
finché non mi fermo.
Qualcosa sta per accadere – la consapevolezza di questa tensione è l’ossatura del libro –, perché nulla accade mai a Highland, Wyoming, profondo e gelido West, dove un cowboy di mezz’età, uno tra John Wayne e Gary Cooper, vedovo, laureato in Storia dell’arte con una passione per Klee, Kandinskij e le caverne, naturalmente nero – ce lo annuncia lui stesso nelle prime pagine come si dice buongiorno –, che sembra sempre avere tutto sotto controllo, vive la sua appartata quotidianità fatta di giornate che iniziano alle cinque e trenta, un centinaio di chili di merda di cavallo da spalare, cavalli difficili da addestrare, un cucciolo di coyote con tre zampe da curare.
Perché la comunità locale, compresi gli amici del protagonista, apostrofa con pesanti epiteti il ragazzo gay scomparso? È l’intolleranza bruta che permea il doppiofondo dell’etica individuale, una reazione che ricorda da vicino i ben più appariscenti cartelli (dio odia i froci, cambiate o bruciate) imbracciati da migliaia di persone comuni nelle contromanifestazioni “per ristabilire i princìpi etici” che seguirono il tragico omicidio di Matthew Shepard nel 1998, sempre da quelle parti, indubbio punto di partenza della riflessione di Everett.
Come ogni libro che rimane, Ferito può essere descritto dall’accumulazione di due frasi: “Hai provato qualcosa quando ci siamo baciati?”, che Hunt si sente dire dopo giorni di silenzi e “non riconosco le mie impronte finché non mi fermo”, dello stesso Hunt, ferito ma apparentemente solo scheggiato dagli eventi, a ribadire che l’esistenza si spende sempre in frontiera, e la frontiera è ovunque.
Everett, stavolta con uno stile disadorno e lontano da qualsiasi genere (“non ho mai scritto western, ho scritto alcuni romanzi ambientati nel West”), dimostra che la narrativa è un mezzo e che il daimon della scrittura o, qui, la suspance, non è tanto data da ciò che il lettore non si aspetta che accada, ma dal fatto che accada ciò che il lettore sa perfettamente debba accadere. È un problema di come e quando, specie se si parla dei crimini dell’odio.
Su tutto, tra le righe di questo romanzo, ci sono Emily, il cucciolo di coyote a tre zampe, che punteggia la neve attorno al ranch con le sue orme strane, e Peste, un mulo ingovernabile in grado di aprire i cancelli della stalla e che non sta mai fermo, come il pensiero libero di una mente liberata, finalmente, dalla disillusione della successiva ferita da curare. Perché prima o poi il tempo per le parole sarà finito.
Nessuno ha l’esclusiva
dell’odio in questo paese
Biografia del libro
“Avevo in testa l’omicidio di quel giovane gay nel Wyoming quando ho iniziato a scrivere”, ha ammesso Everett riferendosi a barbaro assassinio di Matthew Shepard. “Certe volte gli esseri umani sono proprio delle bestie” e “purtroppo la violenza è il risultato delle tante interazioni tra le persone. Non ci sarebbe bisogno di produrre violenza ma gli uomini, a differenza degli animali che sono ben più onesti, sono attratti dalla violenza”.
“Le ferite sono una verità necessaria dell’esistenza. Non fanno necessariamente male o bene. Ci sono e basta. A volte guariscono. A volte rimangono ferite”. “Sono le scelte che facciamo giorno per giorno a determinare chi siamo”.
Tutti i suoi romanzi sono autobiografie potenziali, a volte ucroniche, continue variazioni sul tema, e in fondo un unico grande libro. Ferito, per esempio, condivide con La cura dell’acqua lo sceriffo, i paesaggi a perdiocchio, il nascondere e il nascondersi, l’idea di spedizione punitiva o curatrice e, soprattutto, quei tre o quattro mentecatti che pensano di tenere in mano le redini del mondo.
Il libro è stato scritto a penna sugli inseparabili quaderni ad anelli nel ranch che Everett aveva in California. La stesura ha richiesto, nel 2005, circa un anno. Everett lo considera uno dei suoi libri più sperimentali. Ferito ha vinto l’Usa Pen Literary Award nel 2006.
Selezione stampa
- “[…] una narrazione lineare, una storia che ti tiene passo passo, fino allo scioglimento atteso. Una storia, però, incatalogabile: c’è la frontiera del west, […] ma non è un romanzo western; ci sono gli elementi classici per la costruzione di una storia thrilling […] ma non è un thriller […] e il romanzo […] parla dell’odio per i diversi, ma non è – o almeno non è solo – un romanzo sociale”.
Marco Rovelli, nazioneindiana.com, 23 settembre 2009
- “[…] uno dei più grandi scrittori americani contemporanei – se non il più grande.”
David Frati, Elena Torre, mangialibri.com, luglio 2009
- “Percival Everett ha scompigliato ancora una volta le carte, tirando fuori dal cappello Ferito […], un romanzo scarno e ficcante nella migliore tradizione della prateria americana.”
Fabio Donalisio, Blow Up, luglio 2009
- “[…] una storia che non offre soluzioni ma domande, a cominciare da quella – centrale – di come si possa estirpare dalla coscienza degli uomini l’avversione che in troppi provano per chiunque non si adegui a vecchi e nuovi conformismi.”
Stefano Manferlotti, Il Mattino, 8 giugno 2009
- “Ci sono tutti gli ingredienti del vecchio West nell’ultimo romanzo di Percival Everett […] c’è il repertorio della frontiera, della natura selvaggia e imponente, della sfida con sé stesso e della ricerca dell’ignoto. Soltanto che Everett usa con originalità la ‘cassetta degli attrezzi’ tradizionali del genere west.”
Tonino Bucci, Liberazione, 27 maggio 2009
- “[…] romanziere di magistrale artigianato.”
Franco Cordelli, Corriere della Sera, 2 aprile 2009
- “Everett […] è scrittore antiaccademico, che non risparmia stilettate all’industria editoriale del proprio paese. È pronto a scagliarsi contro le mode e i salotti intellettuali.”
Tonino Bucci, Liberazione, 27 marzo 2009
- “[…] il romanzo scava nelle psicologie, seziona brutali intolleranze, crea metafore in una natura aspra che appare meno selvaggia degli uomini. Alla fine la violenza esplode in un evento drammatico preparato con incisiva tensione. Atteso, quasi ineluttabile. Eppure arriva come un pugno nello stomaco.”
Annabella d’Avino, Il Messaggero, 30 marzo 2009
- “Un vero trionfo del ‘post-western’.”
Claudio Gorlier, Ttl, 21 marzo 2009
- “Everett conferma qui l’acuta intelligenza già rivelata [...]. Se l’opera di questo eccellente scrittore è in gran parte inedita da noi, è anche per l’abilità con cui egli plasma e controlla la lingua inglese.”
Teo Lorini, Pulp, marzo-aprile 2009
- “Uno stile scarno, colloquiale, che regala splendide pagine di tenerezza mentre all’orizzonte si profila il disastro.”
Matteo B. Bianchi, Linus, marzo 2009
- “Everett è sempre sul punto di fare quel che ha detto di non voler fare.”
Viola Papetti, Alias, 28 febbraio 2009
- “[...] tra i più interessanti scrittori statunitensi contemporanei.”
Gian Paolo Serino, Il Venerdì di Repubblica, 27 febbraio 2009
- “[...] uno di quei rari libri che divori sperando di non arrivare mai a doverlo chiudere. Splendida scrittura quella di Everett.”
red., QN, 15 febbraio 2009
- “[...] narrazione tesa ed essenziale.”
Pier Mario Fasanotti, il Giornale, 8 febbraio 2009
- “[...] l’afroamericano Percival Everett, figura schiva e prolifica delle lettere Usa, [...] torna nello scenario di Brokeback Mountain di Annie Proulx per indagare con altri noti ‘l’esperienza dell’America’.”
Lara Crinò, D della Repubblica, 7 febbraio 2009
“[…] uno dei più grandi scrittori americani contemporanei – se non il più grande.”
David Frati, Elena Torre, mangialibri.com, luglio 2009
“Percival Everett ha scompigliato ancora una volta le carte, tirando fuori dal cappello Ferito […], un romanzo scarno e ficcante nella migliore tradizione della prateria americana.”
Fabio Donalisio, Blow Up, luglio 2009
“[…] una storia che non offre soluzioni ma domande, a cominciare da quella – centrale – di come si possa estirpare dalla coscienza degli uomini l’avversione che in troppi provano per chiunque non si adegui a vecchi e nuovi conformismi.”
Stefano Manferlotti, Il Mattino, 8 giugno 2009
Rassegna stampa di Greenwich
Percival Everett ha vinto con Ferito il premio Von Rezzori-Vallombrosa. Leggi il bel ritratto su la Repubblica-Firenze.
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