Iginio Ugo Tarchetti
Un aspetto di re merovingio avea […] un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche critico oggi lo chiamerebbe un “féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale proclamava al pari d’un altro sconfinato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi!
Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Treves
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Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua idealità d’artista.
Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N
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Tarchetti era pallido e malinconico, componeva le sue opere a voce alta, scrivendo una frase e ripetendola infinite volte finché l’ispirazione non gliene suggeriva un’altra da affiancare a quella scritta in precedenza. Era affascinante, Tarchetti, capace di provocare grandi passioni e incapace di gestirle: molte furono le donne che amò e altrettante le donne che lo amarono soffrendone. Come addetto al commissariato militare, si mosse tra Varese, Milano e Parma, dove conobbe la donna che divenne la sua ossessione e che ispirò il suo capolavoro: era il novembre 1865, poco prima che lo scrittore si volgesse all’esistenza scapigliata dedita alla scrittura, quando Carolina (o Angiolina, il nome è incerto), donna epilettica, orrenda, in fin di vita, lo sconvolse; la sua bruttezza lo repelleva, eppure non riusciva a staccarsene. Questo sentimento morboso ha regalato alla scapigliatura milanese, e alla letteratura, una fra le più inquietanti e perfette rappresentazioni della fascinazione che l’orribile, il ripugnante, il malato possono esercitare sull’animo umano.
Fosca nasce con un espediente manzoniano (i diari del protagonista) e diventa subito una creatura a due facce: da un lato il ricordo dell’amore levigato, soffice, di Giorgio per Clara, bianca d’aspetto e d’animo, morbida, rasserenante, ispirata a una relazione reale di Tarchetti con una milanese. Dall’altro, la sudditanza incontrollabile, presente e sofferta di Giorgio nei confronti di Fosca, creatura dal pallore che sa di tomba, appuntita, ossuta. Eppure questa donna, a cui la Natura fu matrigna, ammalia: capelli e occhi sono splendidi, neri, di un nero che acceca, rapisce, la sua figura sgraziata è di un’eleganza inaspettata nelle movenze. È una donna intelligente, divora i libri come un tarlo (“Legge come noi fumiamo”), è acuta, penetrante. Tarchetti fa dire a Giorgio: “Più che l’analisi di un affetto, che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. Fosca è il morbo, del corpo e della mente, che consuma, che contagia, Fosca somiglia alla morte e Giorgio, che ha orrore di quel corpo scheletrico, è vinto dal suo viso, nella notte come trasfigurato. Fosca è esempio compiuto del disperato tentativo, da parte di una creatura reietta, di attirare su di sé l’attenzione: in realtà, è lei, non Giorgio, il vero corrispettivo di Tarchetti, malato di tisi, tormentato dal bisogno d’amare ed essere amato. Il romanzo ruota intorno all’amore implorato, preteso anche a costo di diventare persecutorio e forzato; dice Fosca alla fine del libro: “Voglio costringervi a ricordarvi di me, quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete più dimenticarmi”. Giorgio non dimenticherà Fosca, anzi le soccomberà completamente: tre giorni prima della morte di lei, le concederà una delirante notte d’amore, alla sua dipartita le concederà anche la mente: il libro si conclude infatti con il trionfo totale della morte: quella fisica di Fosca e quella spirituale di Giorgio, vinto dal collasso nervoso, infettato infine dallo stesso male di lei e proprio per questo destinato a ricordarla per sempre.
L’epilogo della vita di Tarchetti compare sulla rivista Il Pungolo il 26 marzo del 1869, all’indomani della sua morte, avvenuta per tifo: “è morto dopo aver lungamente, coraggiosamente e dignitosamente lottato contro le brutali realtà della vita, nemiche accanite all’arte e alle sue manifestazioni; è morto quando la speranza di miglior avvenire, frutto di lavoro assiduo e di costanza indomabile, più caramente gli sorrideva; è morto quando gli sorridevano intorno attestati non dubbi della commozione profonda destata dai casi di questa povera Fosca, nella quale egli quasi morente versò tanta parte della vita che gli fuggiva ― gioie, dolori, aspirazioni indefinite, proteste sdegnose, indignazioni sante ― e quasi ad ogni linea, il presentimento della morte vicina”. Carolina-Angiolina, per uno scherzo del destino, da lui incontrata che era quasi moribonda, gli sopravvisse, e dopo la morte di lui continuò a far arrivare, dalla nativa Sardegna nella quale era tornata, fiori sulla sua tomba ogni anno nel mese di novembre. Proprio sul Pungolo venne pubblicato postumo a puntate Fosca, rimasto incompiuto e portato a termine da Giorgio Farina, amico di Tarchetti.
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Iginio Tarchetti nasce il 29 giugno 1839. Indirizzato dalla famiglia agli studi classici, dopo il liceo entra nel 1859 nel commissariato militare, dove rimane fino al 1865, non senza problemi a causa del suo carattere intollerante e libero. Tra il 1861 e il 1863 viene spostato tra la Puglia, la Campania e la Toscana: in questo periodo matura la sua vocazione letteraria. La salute precaria lo porta a congedarsi e a trasferirsi a Milano, dove entra in contatto con gli ambienti scapigliati e fonda con un gruppo di amici un circolo letterario, attribuendosi il nome Ugo per evidenziare le sue affinità foscoliane; il periodo fecondo per le attività letterarie di Tarchetti è compreso tra il 1865 e il 1869, anno della sua morte. Collabora a diversi periodici: Gazzettino Rosa, Rivista Minima, Emporio Pittoresco, ovviamente il Pungolo: è lui stesso l’editore di due riviste, Palestra Musicale e Piccolo Giornale, che hanno però breve durata. Traduce Dickens e Smith per Sonzogno, scrive un trattato critico sul romanzo, Idee minime sul romanzo, che esce sulla Rivista Minima nell’autunno del 1865. Nello stesso anno e sulla stessa rivista appare il romanzo Paolina – Mistero del coperto Figini, che ottiene pochissima attenzione, al contrario del successo riscosso nel 1866 con Drammi della vita militare. Vincenzo D., edito poi nel 1869 con il titolo definitivo di Una nobile follia – Drammi della vita militare. Nello stesso anno esce Disiecta, raccolta di liriche dai toni macabri e sepolcrali, e i Racconti fantastici e Amore nell’arte, nelle cui filigrane ritroviamo Hoffmann e Poe. Fosca, che gli dona la tanto agognata notorietà, conclude l’esperienza letteraria del giovane Iginio Ugo, sulla cui tomba gli amici vollero incidere per sempre il ricordo della sua vita straordinaria e appassionata: “Per amore dell’arte cui gli agi sacrificò, ebbe quotidiani dolori, morte precoce; onestamente libero, dilesse compatì fu amato e compianto, pose affrettato nei libri parte dell’anima cupida dell’infinito”.
Vorrei essere un’iena, addentrarmi nei sepolcri e pascermi delle ossa dei morti. A questo mondo io non vedo che teschi e stinchi. Se una donna mi bacia, io non sento che freddo; se mi sorride, vedo i suoi denti a muoversi senza gengive, minacciando di uscire di bocca; se mi abbraccia, non ho che la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta.
da Pensiero
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Non mi dimenticherò mai di quel giorno in cui lo conobbi né del modo in cui lo conobbi. Fu una di quelle rivelazioni piene, ardenti, istantanee; una di quelle espansioni d’animo pronte e complete che non si fanno, non si ricevono e non si conoscono che a quattordici anni. A quell’età gli affetti sono subiti come i rancori, le amicizie rapide come gli affetti, gli affetti inconsiderati come le ire. A quattordici anni si amano tutti coloro che hanno quattordici anni. Più tardi si amano tutti indistintamente, che è lo stesso che dire che non si ama nessuno, perché non si predilige nessuno.
da Storia di una gamba
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