È con facilità che vorrei si entrasse in ciò
che scrivo. Che ci si trovasse a proprio agio.
Che si trovasse tutto semplice. E però che
tutto fosse nuovo, inaudito: illuminato
con naturalezza, un nuovo mattino.
Francis Ponge
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È stato detto che nessuno nel Novecento ha avvertito l’intelligenza delle cose quanto Francio Ponge; nessuno, quanto lui, ha saputo “passare dalla parte degli oggetti”. […] Se è vero che Ponge è passato dalla parte degli oggetti (è andato verso le cose stesse, secondo il verbo fenomenologico), se ha combattuto e vinto lo sguardo abituale dell’Uomo (dell’Uomo occidentale, in ogni caso) che individua gli oggetti solo per fruirne e per dominarli, è perché – nello stesso tempo e con lo stesso gesto – ha rifiutato la lingua del dominio terroristico dei significati, la lingua del lógos e della ratio, la lingua strumento di controllo e di manipolazione, toccando la regione “autentica” delle radici etimologiche, dei significanti non sottomessi, dell’atto fonico e grafico che “prova” i suoni e “prova” i segni. Solo così, con questa duplice e concomitante liberazione (e rivoluzione), Ponge ha potuto tentare la sua via: cose finalmente (nuovamente) libere dallo sguardo dell’Uomo Padrone e Datore di Senso, hanno potuto dirsi in una lingua sottratta all’addomesticamento, riportata dalla “raison” al “réson”, restituita alla sua vita vitale e quindi sorprendente e quindi imprevedibile. Lo scrittore, in altri termini, “agisce” nel momento assoluto dell’incontro tra la cosa (non asservita) e la parola che ne scaturisce: là dove il testo è dis-posto ad essere plasmato dal pre-testo (il che implica una complicità originaria tra lingua e mondo).
Libero erede della grande avanguardia novecentesca (il Surrealismo!) e probabilmente non estraneo alla riflessione sul linguaggio di Heiddeger, Ponge è uno dei pochi che abbia incarnato un’esperienza poetica così radicale senza per questo dover pagare uno scotto troppo alto ad impostazioni ideologiche o metodologiche condivise, a programmi di scuole o a manifesti di gruppo, ma con una libertà che è segno di una necessità tutta intima, di un metodo conquistato sul campo.
Daniele Gorret, prefazione all’edizione italiana di Le soleil placé en abîme, (Il sole in abisso, Edizioni l’Obliquo, 2003
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In Proêmes (del 1948) Ponge indica retrospettivamente nel Parti pris des choses un insieme di «échecs de description», e spiega come l’esperienza dell’impossibilità di descrivere sia seguita dallo sforzo verso una sorte di «asimptote» della descrizione e della definizione. Da un simile processo generativo (l’impossibilità come barra e motore all’atto di scrittura) nasce lo statuto insistentemente «antipoetico» del testo pongiano, e si chiarisce il posto in esso privilegiato della brutta copia – o più esattamente l’abolizione della differenza tra «brutta copia» e «bella copia», tra testo preparatorio e testo definitivo. Poiché in un certo senso nessuna enunciazione è definitiva, e ognuna lo è: anche il minimo germogliare di pensiero e di linguaggio (di pensiero alle prese con il linguaggio) e tensione verso la formulazione compiuta, irraggiungibile e quindi, in definitiva, equivalente ad essa. Anche quando la frase rimane incompiuta, anche quando il saltatore ricade sulla sbarra, o si ferma nell’istante prima di saltare, c’è nella sua partenza tutta la quantità, tutta la qualità dell’energia che caratterizza l’atto di espressione. […] Ma questi oggetti, la cui descrizione è irrealizzabile, che sono in sostanza per Ponge? Sartre li interpretava, nell’articolo del ’ 44, in una prospettiva heiddeggeriana, come Ding (cosa in sé) opposte a Zeug (strumento): sottratti cioè allo sguardo e all’utilizzazione da parte dell’uomo, restituiti alla loro purezza originaria. Ma per molti oggetti del Parti pris des choses l’utilizzazione fa visibilmente parte intrinseca della definizione (il pane, la porta, l’ostrica, ecc.) Inoltre, se accade spesso nel libro che oggetti culturali vengano «naturalizzati» (la candela, la giovane madre, trattate come «vegetali», il pane come «Cordigliera delle Ande»), gli oggetti naturali invece sono curiosamente culturalizzati (la pioggia, gli alberi, descritti come meccanismi, «ingranaggi»), indicati come attivi e responsabili (la farfalla è «lampista»). Per di più, molti oggetti «naturali» -- e in quanto tali estranei all’uomo e alle sue preoccupazioni – vengono caricati di una responsabilità precisa e complessa, della somma responsabilità forse, quella dell’atto di espressione (l’arancia, la lumaca, gli alberi). A tal punto che tutte le apparenti descrizioni di oggetti possono apparire come altrettante metafore dello scrivere. Non cose in sé quindi: le «cose» non sarebbero altro, al limite, che pretesti per decifrare, ovunque si posi il suo sguardo, il desiderio dell’espressione che anima lo scrittore. […]
Altri momenti estremi del confronto con l’oggetto nella letteratura aiutano ad avvicinare la misteriosa chose pongiana. Nella Nausée di Sartre il protagonista Antoine Roquentin scopre improvvisamente in un giardino pubblico «la radice dell’ippocastano»: «affondava nella terra, sotto la mia panchina. Non ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e, con loro, il significato delle cose, le regole d’uso, i fragili punti di riferimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie…» La percezione dell’esistenza delle cose (delle cose in quanto esistenti) comincia qui quando il linguaggio si allontana; e l’«assurdo» e precisamente la dimensione delle cose viste al di fuori delle «regole d’uso» fornite dalla parola.
Altra tabula rasa, nel contatto con l’oggetto, quella – ben posteriore al Parti pris des choses – della «scuola dello sguardo». Robbe-Grillet: «Ad ogni istante, delle frange di cultura (psicologia, morale, metafisica, ecc.) vengono a sovrapporsi alle cose, conferendo loro un aspetto meno estraneo, comprensibile, più rassicurante…» Si tratterà quindi, scrivendo, «di aprire gli occhi », e di vedere le cose, nella loro superficie netta, liscia, intatta, le cose «che sfidano la muta dei nostri aggettivi animistici o casalinghi».
Nei due casi vi è scoperta di un’estraneità radicale, avvicinamento a una sorta di nudità sconosciuta – sconvolgente e tragica per Sartre, neutra, trasparente, quasi scientifica per Robbe-Grillet. Ma da tutti e due è il linguaggio a essere messo sotto accusa – linguaggio che «copre», nasconde, che riduce le cose esistenti allo stato di puri strumenti, o che, per mania di profondità, impedisce la percezione della loro superficie.
Per Ponge il rapporto parole-cose non è cosi semplice. Prima di tutto egli non crede alla possibilità di un «allontanamento del linguaggio», né alla riduzione dei segni a uno strato sottile, neutro, antiantropomorfico. «Non si esce dall’albero con mezzi da albero», scrive nel Parti pris des choes: quando le piante si sforzano di esprimersi, cercano di «intonare un cantico variato», e producono soltanto, «in migliaia di copie, la stessa nota, la stessa parola, la stessa foglia». Non si esce dal linguaggio, perché il linguaggio è il nostro destino, «la nostra sola patria» – il nostro abitacolo e orizzonte.
Le «choses» sono impastate di parola, in maniera irreversibile: perciò, prendere il loro partito non vuol dire (sarebbe un’operazione ingenua, oltre che utopistica) separarle dall’elemento «linguaggio» subdolamente introdottosi in esse: significa al contrario esplorare, far riemergere alla luce tutti gli strati linguistici sovrapposti e semicancellati che creano in noi per ogni cosa l suo volume specifico. Parti pris des choses, compte tenu des mots, tale sarebbe per Ponge il titolo al completo.
Ma questo modo per il linguaggio di risiedere all’interno della cosa non implica affatto l’accettazione del discorso, della lingua cosi com’è. Anzi, la prima «ragione di scrivere» – e detto in Proêmes – è proprio il «disgusto»: «disgusto di ciò che siamo costretti a pensare e a dire». Critica del linguaggio quindi, critica dei segni logori nel linguaggio, ma non in nome di un ipotetico strato «prelinguistico» o di un linguaggio trasparente, aurorale. Per una rimessa in giuoco invece di tutto il suo spessore, attraverso un maneggiamento ardito che non teme di «sfigurarlo». Trasformare il notum in novum, secondo il precetto di Orazio, e farlo per mezzo di un’immersione radicale nella materia-linguaggio.
A questo punto, perché le cose? Se la posta del giuoco è in definitiva linguistica, linguistico-semiologica, perché insistere tanto sull’oggetto della rappresentazione? Non è forse esso stesso il semplice mezzo di un’operazione che lo supera infinitamente e che, in qualche modo, lo dissolve nel suo incessante movimento?
Anche a questo dubbio Ponge risponde: «L’oggetto è la poetica». «Si tratta di un rapporto all’ccusativo». L’oggetto, l’urto dell’oggetto reale, mobilita la nostra anima «transitiva» («vuole un oggetto, che la interessi, come suo complemento diretto, immediatamente»). E l’artista, «più di ogni altro, ne subisce la carica, accusa il colpo». Senza un oggetto radicalmente esterno, l’incontro non avviene, la mente si assopisce, e culla i propri fantasmi.
Il progctto, quindi, è di scrivere un nuovo De natura rerum, o piuttosto un nuovo De varietate rerum il cui metodo viene cosi enunciato: «Il miglior partito è di considerare ogni cosa del tutto sconosciuta, e di passeggiare o di sdraiarsi nel sottobosco o sull’erba, e di riprendere tutto all’inizio». Una fenomenologia poetica, certo, ma una fenomenologia materialista, non esistenzialista, per la disperazione di Sartre: L’oggetto, la res non riporta, come ne la Nausée, a l’«assurdo» della condizione umana: è ciò che «tira fuori» la mente, ciò che la strappa al chiuso, alla ristrettezza di sé: «La “bellezza” della natura consiste nella sua immaginazione, in quel modo di poter tirare l’uomo fuori da se stesso, dal maneggio ristretto, ecc.» L’opera di Ponge produce ciò che si può chiamare: «allegria materialista» – contatto rinnovato, rinnovante, con l’esterno, con le «choses» della «natura» e del mondo.
«Per le cose», «contro l’uomo»: il «partito preso» si chiarisce. Per l’incontro-scontro, dialettica tra esistenti, contro il ripiegamento freddoloso, spiritualista; ma anche contro la superbia dell’uomo che si erode esterno e superiore alle altre creature e «cose» dell’universo, perché si ritiene dotato di Ragione. Ponge scrive «réson» la parola «raison»: la facoltà sublime è solo «risuono», fievole eco di suoni che nascono fuori da essa. Ma la nuova ortografia non la diminuisce soltanto; la amplia anche, se suscita nel suo spazio astratto la presenza della musica, introduce una inedita capacità di sentire e di tener la propria parte nel gran concerto cosmico.
Jacqueline Risset, “De variegate rerum, o l’allegria materialista”, introduzione all’edizioni italiana del Partipris des choses (Il partito preso delle cose, Giulio Einaudi Editore, 1979)
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Sui cespugli tipografici costituiti dal poema, su una strada che non porta né fuori dalle cose né verso la mente, certi frutti sono formati da una agglomerazione di sfere che una goccia di inchiostro riempie.
Neri, rosa, e kaki insieme sul grappolo, offrono lo spettacolo di una famiglia burbera in età diverse piuttosto che una viva tentazione a coglierle.
Vista la di sproporzione tra i semi e la polpa, gli uccelli li gustano poco, tanta poca cosa resta in fondo quando dal becco all’ano ne sono attraversati.
Il poeta invece nel corso della sua passeggiata professionale ne fa giustamente il proprio modello: «Così dunque, si dice, riescono in gran numero gli sforzi pazienti di un fiore molto fragile benché da un arcigno intricarsi di rovi difeso. Senza molte altre qualità – more, perfettamente more sono, e mature – come anche questa poesia è fatta».
Francis Ponge, Le more