Bruno Munari
All’improvviso senza che nessuno mi avesse avvertito prima, mi trovai completamente nudo in piena città di Milano, il 24 ottobre 1907.
Mio padre aveva rapporti con le più alte personalità della città essendo stato cameriere al Gambrinus, il grande Caffè Concerto di piazza della Scala, dove si riunivano tutte le persone importanti a bere un tamarindo dopo lo spettacolo.
Mia madre, in conseguenza di ciò, si dava delle arie ricamando ventagli.
A sei anni fui deportato a Badia Polesine, bellissimo paese agricolo dove si coltivavano i bachi da seta e le barbabietole da zucchero. Il caffè veniva dal Brasile, a piedi nudi. Sulla piazza del paese, tutta di marmo rosa, si passeggiava a piedi nudi nelle sere d’estate. Nel caffè niente zucchero. Le vacche erano nel Foro Boario dove improvvisavano ogni mercoledì (mercato) dei cori, non come alla Scala, ma con molto impegno.
Dopo le vacche ho avuto rapporti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le
macchine inutili.
E adesso sono ancora qui a Milano dove qualcuno mi chiede se faccio ancora le macchine inutili oppure se sono parente col corridore (che poi era mio nonno, mentre lo zio Vittorio faceva il liutaio e il cuoco.
Scusatemi se lascio la parentesi aperta.
Bruno Munari, Amici della Sincron (edizione fuori commercio)
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Eclettico come pochi, l’artista Munari è stato definito da Picasso “il Leonardo dei nostri giorni”. Curiosità, creatività, sperimentazione, sono stati l’essenza della sua arte e del suo vivere. Spaziando nei campi più diversi ha sempre trovato un modo nuovo per esprimersi con eleganza ed essenzialità. Il suo legame con il mondo orientale gli ha trasmesso la capacità di vivere con coerenza e di chiedersi il perché delle cose e degli avvenimenti intorno a lui.
Il suo “anomalo” comportamento anche nei settori più tradizionali del mondo dell’arte ha messo a dura prova la capacità dei critici ai quali Munari, per consolarli, risponde che il più grande ostacolo alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire.
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“Nessuna galleria d’arte le voleva esporre, mi dicevano: ma che roba è? Non è pittura, non è scultura, si appendono al soffitto come i lampadari...”
“Appesa ad una corda al soffitto di un ambiente, si muoveva lentamente, spinta da qualche corrente d’aria.
Era come una costellazione, come un gruppo di atomi, o, come si potrebbe dire oggi, una stazione spaziale.
Nelle gallerie d’arte nessuno la voleva esporre perché non era né pittura né scultura.
Dopo essere stata appesa per qualche anno nel mio studio di via Ravizza a Milano, andò distrutta in un trasloco.
Dall’osservazione del comportamento di questa prima ed unica macchina aerea, nacquero in seguito le macchine inutili”.
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Trovare è la conseguenza di cercare. Si dice: chi cerca trova ma è vero solo per poco.
è vero per coloro che quando cercano qualcosa di fuori ne hanno già una parte dentro di loro.
Questo trovare è un ricreare o, almeno, uno scoprire e un confessarsi.
Munari cerca e trova; i suoi strani mestieri si possono spiegare e identificare solo col suo nome.
Che cos’è Munari?
Noi abbiamo verbi in are; in ere; in ire; non abbiamo verbi in ari.
Munari è un’eccezione ed è un verbo attivo che ha solo l’infinito. Munari significa, per esempio, costruire macchine inutili che, in altri termini, sono oggetti assai più utili (ma soltanto allo spirito). I bambini capiscono cosa voglia dire Munari e perciò Bruno si rivolge sovente a loro. Pertanto, ognuno può restare poeta con l’aiuto di quest’uomo intelligente e buono.
Egli non vi insinua evasioni, ma anzi vi pone di fronte a concrete realtà che, senza la sua cortese insistenza per farvele notare, vi sfuggirebbero.
Ernesto Nathan Rogers
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“Personalmente pensavo che [...] sarebbe stato interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria [...] E così feci: ritagliai queste forme, le progettai in rapporti armonici tra loro, calcolai anche le distanze e le dipinsi dall’altra faccia (quella che nei quadri non si vede mai) in modo diverso così che ruotando nell’aria presentassero combinazioni varie. Le feci leggerissime e usai il filo di seta per favorire la rotazione massima”.
“Queste opere sono da considerare macchine perché fatte di varie parti che si muovono, collegate tra loro [...]; inutili perché non producono, come le altre macchine, beni di consumo materiale [...]. Alcuni sostenevano che erano utilissime, invece, perché producono beni di consumo spirituale”.
“A quei tempi imperava il Novecento italiano con tutti i suoi serissimi maestri [...] ed io, con le mie macchine inutili, facevo proprio ridere”.
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L’arte si identificava come espressione di sé stessi: per lo più rifare, su un piano o in volume, soggetti esistenti, o raccontare cose realistiche o false, politiche o meno, o quant’altro, ma sempre metafora e sempre con il proprio stile perseguito per anni, decenni: l’impronta digitale che, suo malgrado, ognuno ha differente dall’altro.
I pittori iniziavano in massa a imbrattare.
Bruno Munari prendeva una rete d’acciaio flessibile a trama molto sottile, quadrata, di un metro per un metro, univa tra loro i due angoli contigui, un angolo lo fissava al centro del quadrato, l’altro lo lasciava libero.
Con due azioni, impiegando due fili di sutura di acciaio di pochi centimetri, operando su tre punti estremi e su uno interno del quadrato: il minimo per il massimo, maggiore economia per il maggiore risultato, era il 1947, Bruno Munari aveva ideato il concavo convesso.
Un’opera semplicissima ma dall’apparenza complessa, senza inizio né fine; che, se appesa in uno spazio con un invisibile filo, si muoveva su se stessa e formava immagini, come la sua ombra, sempre diverse, sorprendenti, di grande spettacolarità.
L’ho avuta sempre presente nella mia memoria quest’opera, per le tante componenti che sollecitavano il cervello: la forma, la luce, il movimento, la leggerezza, la tecnologia, il fare umano, la programmazione, l’imprevedibilità, pur essendo così elementare.
Negli ultimi tempi m’è venuto spesso di pensare a questa struttura che vive da sola ed è giusta così, come concretizzarsi di un’idea.
Oggi ci sono delle strutture che possono assomigliarle, ma sono l’opposto, calcolate a posteriori, servono a sorreggere, a dare ossatura alle complicate costruzioni scenografiche di latta e stucco delle architetture fatiscenti, ma osannatissime, della contemporaneità, di tipi poco probabili come i vari Frank Gehry o Peter Eisenman che con il massimo fanno il troppo, ingombrante e statico.
Il gioco dell’animo di Bruno Munari andava ben più lontano.
Getulio Alviani, Su Munari
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Questi punti possono essere determinati in vari modi, sia con le misure armoniche, sia liberamente, provando e seguendo le forme mentre nascono. Nel primo caso avremo un oggetto che avrà riferimenti con la matematica, nel secondo caso si avrà una forma libera.
Bruno Munari, Arte come mestiere
“...nel disegno tradizionale la linea è un contorno di una figura (la forma del fondo non è considerata)”
“La linea dei negativi-positivi disegna dai due lati
è un confine tra le forme
è un confine tra figura e fondo
Qual è la figura? Qual è il fondo?”
Si potrebbe progettare un insieme di oggetti che sembrano libri, ma che siano tutti diversi per informazione visiva, tattile, materica, sonora, termica, ma tutti dello stesso formato come i volumi di una enciclopedia, che però contiene tutto il sapere o perlomeno molte informazioni diverse. Questi libretti, piccoli perché devono stare agevolmente nelle mani di un bambino di tre anni, potrebbero essere costruiti con materiali diversi, con rilegature diverse, con colori diversi naturalmente, e su ogni libretto ci sarà un unico titolo uguale per tutti: libro. Il titolo sarà messo in modo che comunque il libro sia preso in mano risulti dritto. Quindi la copertina avrà il suo titolo e anche capovolgendo il libro si trova un’altra copertina uguale su quella che di solito è detta “la quarta” di copertina. Ne segue che nella progettazione del “messaggio” interno al libro, l’impostazione di questo debba essere simmetrica in modo che comunque venga preso in mano il libro, il messaggio ha un nesso logico. Come certe frasi che si leggono uguali sia cominciando la lettura da destra verso sinistra, sia viceversa. Questi messaggi non dovrebbero essere delle storie letterarie compiute come le favole, perché questo condiziona molto il bambino, in modo ripetitivo e non creativo. Tutti sanno che i bambini amano farsi ripetere la stessa storia tante volte, e ogni volta il bambino se la fissa bene nella memoria, finché da adulto decorerà la sua villa in campagna con i sette nani e biancaneve di cemento colorato. Così si distrugge nel bambino la possibilità di avere un pensiero elastico, pronto a modificarsi secondo l’esperienza e la conoscenza. Bisogna, fin che si è in tempo, abituare l’individuo a pensare, a immaginare, a fantasticare, a essere creativo. Ecco perché questi libretti sono soltanto degli stimoli visivi, tattili, sonori, termici, materici. Essi dovrebbero dare la sensazione che i libri sono degli oggetti fatti così e che hanno dentro delle sorprese molto varie. La cultura è fatta di sorprese, cioè di quello che prima non si sapeva, e bisogna essere pronti a riceverle e non a rifiutarle per paura che crolli il nostro castello che ci siamo costruiti.
[…] Questo è un problema di sperimentazione delle possibilità di comunicazione visiva del materiale editoriale e delle sue tecniche. Normalmente quando si pensa ai libri si pensa a dei testi, di vario genere: letterario, filosofico, storico, saggistico ecc., da stampare sulle pagine. Poco interesse viene portato alla carta e alla rilegatura del libro e al colore dell’inchiostro, a tutti quegli elementi con i quali si realizza il libro come oggetto. Poco interesse viene dedicato ai caratteri da stampa e ancora meno agli spazi bianchi, ai margini, alla numerazione delle pagine, e a tutto il resto. Lo scopo di questa sperimentazione è stato quello di vedere se è possibile usare il materiale col quale si fa un libro (escluso il testo) come linguaggio visivo. Il problema quindi è: si può comunicare visivamente e tattilmente, solo con i mezzi editoriali di produzione di un libro? Ovvero: il libro come oggetto, indipendentemente dalle parole stampate, può comunicare qualcosa?
Bruno Munari, Da cosa nasce cosa
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“Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere il piacere di capire la voglia di comunicare”.
“Conoscere i bambini è come conoscere i gatti. Chi non ama i gatti non ama i bambini e non li capisce. C’è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di cicci e di cocco e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri”.
Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.
Piero Angela ha detto un giorno è difficile essere facili. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuole fare.
Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima, come si fa a sapere dove ci si deve fermare per togliere, senza rovinare la scultura?
Togliere invece che aggiungere potrebbe essere la regola anche per la comunicazione visiva a due dimensioni come il disegno e la pittura, a tre come la scultura o l'architettura, a quattro dimensioni come il cinema.
Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode, il teorema di Pitagora ha una data di nascita, ma per la sua essenzialità è fuori dal tempo. Potrebbe essere complicato aggiungendogli fronzoli non essenziali secondo la moda del momento, ma questo non ha alcun senso secondo i principi della comunicazione visiva relativa al fenomeno.
Eppure la gente quando si trova di fronte a certe espressioni di semplicità o di essenzialità dice inevitabilmente questo lo so fare anch’io, intendendo di non dare valore alle cose semplici perché a quel punto diventano quasi ovvie.
In realtà quando la gente dice quella frase intende dire che lo può Rifare, altrimenti lo avrebbe già fatto prima.
La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte.
Bruno Munari, Verbale scritto
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Come il giorno e la notte
la regola e il caso sono due contrari
come la luce e il buio
come il rosso e il verde
come il caldo e il freddo
come l’umido e il secco
come il maschile e il femminile.
La regola dà sicurezza,
la geometria ci aiuta a conoscere le strutture
o a costruire un mondo nel quale
ci possiamo muovere senza paure.
Il caso è l’imprevisto
a volte terribile
a volte piacevole
l’incontro con una persona
con la quale si stabilisce subito
un contatto di simpatia o di amore,
l’esplosione di una idea risolutrice
la scoperta di un fenomeno.
La regola nasce dalla mente
si costruisce con la logica
tutto è previsto
con la regola si può pianificare un programma.
Il caso nasce dal clima
dalle condizioni ambientali, sociali,
geografiche, dai recettori sensoriali.
Un odore di eucaliptus
la forma di un sasso
il ritmo delle onde del mare...
La regola, da sola è monotona
il caso da solo rende inquieti.
Gli orientali dicono:
La perfezione è bella ma è stupida
bisogna conoscerla ma romperla.
La combinazione tra regola e caso
è la vita, è l’arte
è la fantasia, è l’equilibrio.
Bruno Munari, Verbale scritto
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Se fosse un musicista, Bruno ci inviterebbe a un concerto di maree, di piogge, di sete fruscianti, di stelle cadenti, di bisbigli. E ci farebbe riudire voci che ci erano passate accanto mentre stavamo distratti...
Ernesto Nathan Rogers
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