Leo Longanesi
Una delle cose che più mi colpiscono, quando
penso a Leo Longanesi, è la qualità, l’intensità
della sua vocazione di editore. Stupisce quasi che quella attività
non abbia avuto una durata maggiore e una parte ancor più ampia
nella vicenda di una personalità pur versatile e complessa.
Longanesi, come si sa, fa del suo essere editore una sfida a tutto campo,
un impegno totale: è direttore editoriale, editor, grafico, illustratore,
copywriter, sempre nel segno di un’inventiva strepitosa, di una
curiosità irrefrenabile, di un’insofferenza per canoni e
schemi acquisiti, di un gusto naturalmente e violentemente in attrito
con tendenze e mode correnti. E dunque in quei dieci, densi anni (1946-1956)
è il publisher che propone scrittori piuttosto irrituali
(Flaiano, Comisso, Berto, Luigi Bartolini), che si appropria di esperienze
cruciali quanto discusse (Jünger, Kravchenko, il Green dei Cattolici)
e si muove anche al di fuori dei recinti letterari cercando autori e storie
che siano specchio di una società e di un costume; è il
redattore che (già allora) corregge e riscrive negando ogni rispetto
alla sacralità del testo; è l’autore di molte e memorabili
copertine, l’inventore delle spadine che per decenni hanno decorato
i frontespizi longanesiani, l’ideatore di segnalibri molto speciali;
è, persino, il creatore di una testata (Il Libraio) che
riesce ad essere insieme efficace house-organ e godibile rivista. In questo,
e pur in una situazione del tutto mutata, vedo un lascito consapevolmente
e concretamente accettato: il senso artigianale del lavoro, la convinzione
della proposta, la ricerca affrancata da ogni vincolo, la necessità
e forse anche il gusto di azzardare ciò che inevitabilmente cozza
contro convenzioni e abitudini consolidate rappresentano una lezione ancor
valida per i longanesiani d’oggi.
Una lezione al cui centro, va ricordato, c’è una rivendicazione
di completa indipendenza, di piena libertà delle scelte editoriali
che è stata fatta propria da Mario Spagnol e che continua a caratterizzare
e a impegnare fortemente la casa editrice. Se quello era il tratto distintivo
del fondatore, arricchito poi da una esibita intolleranza verso conformismi
d’ogni genere, da una decisa inclinazione a pronunciare verità
anche scomode, spero allora che anche la nuova collana intitolata e ispirata
alle spade longanesiane, ormai prossima all’esordio, possa essere
una persuasive riaffermazione di continuità.
Luigi Brioschi, Tuttolibri della Stampa, 27
agosto 2005
*
Di recente si è accesa una viva polemica intorno
al lento ma sicuro decadere della vendita dei libri, ed enti e giornalisti,
in contrasto sul miglior modo di porvi rimedio, continuano a discutere.
Ora, le ragioni che spiegano questa progressiva discesa dell’acquisto
di libri da parte del pubblico sono varie, direi insospettate.
Ad esempio, il diffondersi del termosifone, come mezzo di riscaldamento
nelle abitazioni, ha contribuito a non far leggere la gente. Quaranta
o cinquant’anni fa, quando le case erano in grande numero rallegrate
dalla fiamma del caminetto, la gente, dopo cena, leggeva con più
voglia di oggi. Star seduti accanto alla brace di un tizzone che si spegne
lentamente, prima di andare a letto in una camera fredda, è un
piacere perduto. Nessuno, ora, si siede davanti al termosifone, nella
sala da pranzo o in cucina, visto che il termosifone è collocato
in tutte le stanze.
La scomparsa del caminetto, per di più, ha coinciso col tramonto
di una società risparmiatrice, abituata a non uscir di casa ogni
sera e a trovare piacere in svaghi oggi reputati noiosi, come la lettura
di libri, il giuoco della tombola, i solitari e la conversazione.
E se l’illuminazione elettrica sembrò portare giovamento
alla lettura, quando scomparvero le candele e i lumi a petrolio e a gas,
ci fu, d’altro canto, una maggior voglia, nel pubblico, di uscir
di casa per passeggiare nelle vie illuminate.
A studiar bene questa faccenda, si può scoprire poi che la poca
luce e la penombra giovavano al raccoglimento del lettore. Ancor oggi,
quando ci accade di vivere in un luogo illuminato dalla candela o da un
lume a petrolio, ci accorgiamo di provare più piacere a leggere:
la nostra attenzione è maggiore, e la fantasia che suscita il leggere
e più incoraggiata che in luoghi meglio illuminati e confortevoli.
Lo stesso ci accade nelle biblioteche pubbliche; più esse sono
antiche e austere, meno la «scienza dell’abitazione»
ci ha messo il naso, più leggiamo con profitto e con gioia. Credo
che accada qualcosa di simile a chi si dedica alla contemplazione e alla
religione; dubito che un giovane prete rafforzi la propria fede in seminari
costruiti da Piacentini o da Le Corbusier, fra tubi al neon, pavimenti
di linoleum e mobili di metallo.
Chiedere oggi che la lettura ritorni un rito, e che le occorrano ambienti
d’altri tempi, certo è una pretesa fuor di luogo; ma resta
il fatto che gli ambienti moderni non sono fra i più suggestivi
per leggere. Si può aggiungere che i libri stessi variano secondo
l’ambiente in cui sono scritti e a cui si rivolgono: nessuno scrive
più pensando a un lettore seduto davanti a un caminetto, con molto
tempo da perdere davanti a sé; e nessuno, oggi, ha il tempo, la
calma e il gusto di dedicarsi alle letture di cinquant’anni fa,
a meno che non ubbidisca a particolari interessi. Un uomo di media cultura
si annoia a seguire le vicende di Lucia e di Renzo, quando al cinematografo
può assistere a matrimoni compiuti con maggior rapidità
e attraverso peripezie più sensazionali.
Siamo giunti così a parlare di cinema, il grande e il più
temibile nemico dei libri.
In questi ultimi trent’anni, le pellicole hanno assorbito tutti
gli svaghi del pubblico, uccidendone la fantasia; chi va al cinema non
soltanto sottrae ai libri tempo e quattrini, ma resta tanto sedotto, dominato
da quello, da non poter più tornare alla lettura. Oltre a vicende
d’ogni luogo, lo schermo fornisce un succedersi di immagini vive,
accompagnate da suoni, e ciò indebolisce la capacità fantastica
dello spettatore, a cui tutto è reso facile. Nessun libro darà
mai al lettore medio la gioia di un film, che richiede scarsa attenzione
e concede più varietà di sensazioni.
Molte volte il pubblico, dopo aver assistito a un film, vuol leggere la
storia da cui quella pellicola fu tratta, ma ne resta deluso, anche se
si tratta dei Promessi sposi o dell’Otello. Ciò
perché né Manzoni né Shakespeare riescono a gareggiare
con la tecnica del cinema, più rapida, più varia, e perfino
sorretta dall’aiuto del colore.
Il cinema, poi, a differenza dei libri, asseconda le inclinazioni del
pubblico più di ogni cattivo libro; ne segue le abitudini, ne solletica
i difetti, e dove non riesce a chiarire la propria morale, si sbroglia
con l’aiuto della musica e dei paesaggi. A confronto del cinema,
la lettura sta diventando uno svago che richiede troppa fatica, destinato
a rallegrare «pochi intimi».
L’analfabetismo, l’ignoranza diffusa giovano più al
leggere e alla cultura di quanto non giovi una sapienza popolare diffusa.
A forza di diluire il sapere alle masse, avremo un minor numero di persone
erudite da contrapporre all’esercito di mezze cartucce che conoscono
le prime nozioni della scienza e della storia in pillole.
Il terzo nemico, il più recente, è la radio, il nuovo mezzo
di cultura popolare che si associa al calorifero. Rimanere in una casa
ben riscaldata ad ascoltare il non sempre brillante programma radio è
un modo comodo di dormire ad occhi aperti, di passare da un punto all’altro
del globo senza muovere un passo. Ma oltre alla comodità che il
cinema e la radio offrono al pubblico, vi è una ragione profonda
che spinge quest’ultimo ad allontanarsi dai libri; ed è che
un libro, bello o brutto, richiede sempre uno sforzo dal lettore, lo costringe,
se non altro, a ricordare le pagine lette il giorno avanti, mentre cinema
e radio non richiedono che una minima attenzione. Non soltanto: ma, a
lungo andare, essi diventano un’abitudine del pubblico. E chi si
è abituato a ricevere senza sforzo attraverso l’immagine
e la voce non è poi tanto disposto ad affrontare altri mezzi di
concorrenza più pesanti.
Il mondo moderno tende a semplificare e a livellare ogni cosa: oggi tutto
si compendia, si riduce all’essenziale, al minimo; come il prodotto
in scatola è contrapposto a quello naturale, così il sapere
in pillole è contrapposto alla cultura, a vantaggio dell’ignoranza
generale. È naturale, dunque, che il cinema e la radio, alla fine,
divengano essi stessi non più mezzi di diffusione della cultura,
ma la nuova cultura, o qualcosa di simile, che sta a sé.
Da questi due moderni mezzi di propaganda nasce il quarto nemico dei libri,
e cioè il giornale illustrato.
Benché i direttori dei nostri giornali a rotocalco facciano il
possibile per tener alto il decoro delle funzioni della carta stampata,
tuttavia essi, pur di soddisfare alle esigenze dei proprietari, cioè
delle grosse tirature, sono costretti a ubbidire alle leggi del cinema
e della radio, ad assecondare i vizi del pubblico, il suo gusto e la sua
volgarità. Si assiste così al tramonto di quelle virtù
su cui la stampa fondò il suo potere morale. Vediamo, infatti,
il nascere di quella nuova moralità pubblica, capovolta, senza
confini, che si chiama la pubblicità.
Il bene, il bello, il giusto sono termini di perfezione, miti, aspirazioni
destinati a cedere il passo alla nuova dea, la notorietà. Ora si
tratta soltanto di farsi un nome, di uscire dal buio delle masse con qualsiasi
mezzo. La pubblicità avanza implacabile con l’aiuto della
tecnica, del proletariato e del capitalismo. È naturale che al
libro, in questo nuovo mondo, tocchi un posto nell’ultima fila.
Leo Longanesi, “I nemici
dei libri”, Gazzetta del Popolo, 13 novembre 1951
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