Sarah Kane
Un orrore così
profondo può essere
frenato solo da un rito.
Sarah Kane, Febbre
Il teatro di Sarah Kane
vive di eccessi scenici e verbali e fin dalla sua prima apparizione sulla
scena londinese con il contestatissimo Dannati, che nel 1995
ha segnato una pietra miliare della nuova drammaturgia inglese, l’autrice
si è posta al centro di un fuoco di controversie come paladina
di una scrittura estrema e visionaria. La drammaturga, scomparsa lo scorso
anno, si rifaceva ad una tradizione precisa di orrori scenici, con un
filo rosso sangue che dagli elisabettiani (ma ancor di più dai
giacobini) corre nella cultura scenica anglosassone fino ad Edward Bond,
protagonista in occasione della prima di Salvo nel 1966 di una
vicenda di isterismo censorio simile a quella che ha accolto il suo debutto,
e che non a caso solidarizzerà con la giovane autrice in un momento
di vero e proprio linciaggio da parte della stampa. Terminate le chiacchiere
da tabloid, non è ancora stato compiuto uno studio approfondito
sulla sua opera, che ha avuto il suo completamento con la rappresentazione
dell’ultimo titolo, postumo, Psicosi delle 4 e 48 che porta
in scena con esiti sconvolgenti il tema del suicidio.
Temi e immagini si inseguono e si elidono nei cinque testi inseriti nell’antologia,
mentre la lingua è uno strumento di assoluta precisione che allo
stesso tempo è mezzo di sopraffazione e veicolo di ambiguità.
I titoli delle opere sono di per sé infatti lapidari e polisemici:
così agisce Dannati, che nella scelta originale di Barbara
Nativi traduttrice e regista italiana dell’opera, manteneva l’inglese
inserendo nel manifesto tutta la possibile gamma di sfumature semantiche
(dilaniati, distrutti, etc.) del termine e nella stessa direzione si muove Cleansed (per cui è stato scelto Purificati)
in cui il titolo allude in modo pregnante allo stesso tempo a una crudele
bruciatura di ferite morali e corporee e ad una terribile pulizia etnica.
La scena nelle sue opere è quindi il luogo del conflitto, con una
fortissima tensione a rivisitare le aberrazioni del XX secolo e a immaginarne
di nuove per il XXI.
Nell’opera prima la guerra esterna, dando corpo a una distopia che
trasferisce a Leeds vicende simili a quelle della ex-Yugoslavia, incombe
su una lussuosa stanza d’albergo in cui si svolge una battaglia
interna, quella tra Ian, un giornalista da rotocalco senza scrupoli e
senza illusioni e Cate una ragazza disturbata, in un crescendo di sopraffazioni
e violenze che vengono poi replicate sul protagonista maschile dal soldato
che irrompe nella stanza chiusa siglando un ritmo circolare di efferatezze.
Ancora più esplicito il percorso di Purificati, in cui
un campus universitario diviene letteralmente un campo di concentramento,
dominato da un mad doctor chiamato Tinker (il nome di questo
personaggio, una via di mezzo tra Mengele e Frankenstein, una trasparente
allusione a quello del recensore più inferocito al tempo della
prima edizione di Blasted, che scrisse una critica furibonda e destinata
a rimanere negli annali della stampa inglese intitolata Una disgustosa
sagra della schifezza) che usa i corpi delle persone per il proprio
piacere, con una vasta gamma di scelte dalla masturbazione di fronte ad
un peep-show, alla mutilazione di arti e organi dei malcapitati
ospiti prigionieri dell’istituzione. La realtà è quindi
un blocco compatto di aggressione e minaccia, ma nelle opere dell’autrice
è ben presente oltre alla violenza anche l’altra faccia della
medaglia: quella delle vittime, che hanno difficoltà di parola
e di espressione. Cate in Dannati infatti balbetta, Carl in Purificati viene privato dell’uso della lingua dal maniaco dottore e moltissime
sono le immagini di silenzio forzato, di imposizione di mutismo, di cancellazione
di possibilità di espressione; tutto ciò lascia però
intatta la possibilità di esprimere tenerezza, di manifestare affetto
in questo sanguinante paesaggio con rovine. Alla sua prima apparizione
molti recensori hanno accusato l’autrice di mirare al grand
guignol e alla pulp fiction, di accumulare cadaveri e stupri
solo per una necessità pubblicitaria di scioccare gli spettatori
e gli addetti ai lavori, ma è indubbio invece che sia pur nell’arco
brevissimo di cinque anni di scrittura, gli elementi spesso ridondanti
nell’opera prima hanno trovato efficace decantazione e declinazione,
smentendo il semplicistico assunto e ponendo in primo piano i percorsi
complessi di una ricerca stilistica articolata.
Il riferimento elisabettiano e giacobita assume quindi la centralità
di un modello da rielaborare e il racconto della violenza trova qui filtri
adeguati di teatralizzazione, utilizzando con grande maestria le convenzioni
di un genere per un confronto in diretta con la contemporaneità.
I riferimenti sono infatti moltissimi: in Dannati Ian viene accecato
dal soldato come Gloucester nel Re Lear, in Purificati a Carl viene tagliata la lingua e poi le mani, come accade a Lavinia nel Tito Andronico, ma in questo senso ha un ruolo centrale L’amore
di Fedra, vera e propria dichiarazione di stile e manifesto poetico.
Il testo, nato all’interno di un progetto di riscritture mitologiche
promosso dal Gate Theatre di Londra, porta in scena la storia in chiave
pop, con un’ambientazione contemporanea che include e tematizza
magistralmente numerosi rimandi maligni e crudeli alle cronache a luci
rosse della casa reale inglese. Non c’è però alcun
intento satirico e la relazione con il presente serve solo a fornire uno
scenario plausibile ad un confronto serrato con la classicità:
Ippolito è infatti un giovinastro grasso e debosciato, in preda
ad uno spleen insuperabile, che fa sesso per noia, è perennemente
sporco e sempre intento a guardare la televisione e mangiare patatine
fritte; i rimandi all’attualità reperibili sotto la caratterizzazione
iperbolica sono utilizzati con estrema sapienza compositiva, senza mai
indulgere in descrizioni aneddotiche. Il modello in questo caso, anche
se non mancano links con Euripide, è soprattutto Seneca,
vero e proprio punto di riferimento principale del teatro elisabettiano,
sempre popolarissimo in ambito britannico fino all’attualità,
come dimostrano numerose riscritture degli ultimi anni tra cui è
in primo piano il magnifico Thyestes di Caryl Churchill andato
in scena al Royal Court nel 1994. Dalla Fedra del massimo tragediografo
latino, l’autrice trae la scelta di una ineluttabilità che
è soprattutto linguistica, giacché le parole (tra cui quelle
che compongono l’accusa di stupro formulata da Fedra) inducono azioni
violente che in esse ambiguamente e vanitosamente si rispecchiano. Non
a caso il protagonista, evirato da un coro di pettegola «gente comune»
da talk show, conclude con un sorriso la vicenda dicendo: «ce
ne volevano di più di momenti così», lieto di aver
finalmente trovato un’emozione capace di risvegliarlo dal suo immedicabile
torpore esistenziale.
Un autore che scompare giovane resta bloccato in una fissità di
gesti linguistici e stilistici riconosciuti che dovrebbero costituire
la sua più vera cifra espressiva, ma questo com’è
noto è un mito esegetico; spesso anche nella apparente unicità
di una trama creativa si possono trovare fili di diverso colore e atmosfere
decisamente differenti. Se è indubbio infatti che in tutta la sua
opera è presente l’idea della scena come ring e come campo
di battaglia, muta decisamente il senso delle azioni che vi si svolgono.
Il percorso della Kane aveva infatti esplicitato chiaramente con l’ultimo
lavoro la volontà di non essere sigillata in una unica immagine
stereotipata. Febbre infatti, pur parlando ancora di violenza e sopraffazione,
vira nettamente verso una chiara impostazione poetica, che rimanda esplicitamente
agli ultimi testi beckettiani, montando affermazioni e frammenti di storie
che talvolta rimandano ad opere di scrittori come Shakespeare e talaltra
alla Bibbia e affidandoli alle voci di quattro identità apparentemente
indistinte: A, B, C e M. E ancora più radicale è la scelta
dell’ultimo lavoro, Psicosi delle 4 e 48 (il titolo allude
all’ora notturna che secondo le statistiche è il momento
di maggiore attrazione verso il suicidio), in cui lo stesso concetto di
identità viene messo completamente fuori gioco, nella continua
e sconvolgente alternanza tra affermazione e rifiuto di sé e anche
la stessa possibilità di stabilire una nozione di gender è in scacco. II testo, che ha una esplicita tessitura poetica,
brucia nella sintesi lirica una ricerca esistenziale complessa e dolorosa
e radiografa un progressivo distacco dal mondo, scandito da affermazioni
categoriche di emozioni e da cataloghi di psicofarmaci, che danno il ritmo
a una discesa nell’abisso della follia e al rifiuto progressivo
del concetto stesso di cura, in un isolamento terribile in cui i rapporti
sociali sono solo fonte di sofferenza («ogni complimento si porta
via un pezzo della mia anima»). In entrambi i casi la drammaturgia
pone a margine la presenza (ovvero il plot definito nettamente,
come accadeva nei testi precedenti costruiti per via di eccessi narrativi)
e dà centralità all’ assenza e al suo potere evocativo;
la vicenda si frammenta infatti nei riflessi turbati di voci senza corpo,
che alludono a mille possibili storie che poi vengono lasciate e riprese
come in un continuo flusso lirico che accoglie brusche sterzate drammatiche.
Sarah Kane è quindi senza dubbio la capofila della cosiddetta «new
angry generation» britannica che tanto interesse ha suscitato
in tutto il mondo negli ultimi anni; per quanto la rabbia che da Osborne
in poi funesta la ricezione di ogni nuovo autore inglese controverso sia
davvero solo un termine retorico, privo di spessore e interesse, che appassiona
soprattutto i giornali. La lettura data dalla stampa quotidiana, su cui
soprattutto, per ora, sono apparse prese di posizione critiche nei suoi
confronti, hanno puntato infatti con poche eccezioni a banalizzarla, rappresentandola
nei casi migliori come una monocorde scrittrice engage che nella
propria opera si confronta direttamente con la società facendo tabula rasa e parlando contro tutti e contro tutto. È
indubbio che la vita in comune e il degrado esistenziale siano temi comuni
nelle sue opere, ma sempre senza che sia presente una volontà grettamente
documentaristica o banalmente movimentista. Il qui e ora di una esistenza
sociale disintegrata sono solo aspetti di una problematica del vivere
più ampia, che può colorarsi di tonalità mitiche
o precipitare nei vortici di un film dell’orrore. In questa prospettiva
assume un senso chiarificatorio Skin, il suo unico film (diretto
da Vincent O’Connell) che narra una storia crudele e esilarante
a un tempo di «educazione», indagando fin nelle più
profonde sfumature il farsi e il disfarsi di una personalità in
relazione ad impulsi esterni. Il protagonista, uno skinhead che passa
le giornate picchiando i neri e ubriacandosi, diventa infatti schiavo
di Marcia, una domina caraibica che cambierà per sempre
il suo modo di vedere la realtà, ma il tono della vicenda, che
pure ha aspetti aspri, è in realtà leggerissimo e, lungi
dal voler costituire un docu-drama sulla «violenza dei
naziskin nella periferia londinese» (o simili), narra una storia
di ottusità e illuminazione che potrebbe benissimo avere anche
altro contesto e sviluppo e che mette in evidenza dinamiche di risonanza
universale. Una conferma ulteriore della validità del mondo espressivo
dell’autrice e delle sue notevoli capacità di declinarlo
in sistemi stilistici sfaccettati e di grande complessità. Ciò
che infine è centrale nella sua scrittura è l’idea
di scena come luogo della catarsi dove l’estremo orrore della realtà
può venir decantato nella passione o nella sua completa assenza,
nell’eccesso o nella mancanza di parole, ma sempre con una netta
presa di posizione etica a favore delle vittime, dei perdenti, che è
il filo rosso dei suoi testi e che si declina tra infinite variazioni
e sottili verifiche, ma sempre con grande evidenza, nello stesso fatto
teatrale.
Sarah Kane è nata nel 1971. Ha debuttato nel 1994 con la trilogia
di monologhi Sick e nel gennaio dell’anno seguente è
stato rappresentato al Royal Court di Londra per la regia di James Macdonald
il suo Blasted, accolto da reazioni estremamente contrastanti
e da un intensissimo battage dei media. In seguito ha scritto Phaedra’s
love (Londra, Gate Theatre, 1996), Cleansed (Regia James
Macdonald, Londra, Royal Court, 1998) e Crave (Regia Vicky Featherstone,
Edimburgo, Traverse Theatre, 1998). Ha firmato al Gate Theatre due regie: Phaedra’s love e Woyzeck di Georg Buchner, inserito
in un festival dedicato al drammaturgo tedesco ed ha scritto la sceneggiatura
di Skin, un cortometraggio diretto da Vincent O’Connell
e prodotto da Channel 4. È tragicamente scomparsa nel febbraio
1999, il suo ultimo lavoro 4.48 Psychosis è stato rappresentato
postumo al Royal Court Theatre per la regia di James Macdonald nel giugno
2000. I suoi testi sono stati tradotti e realizzati in Belgio, Danimarca,
Francia, Germania, Grecia, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna;
in Italia la sua opera è stata presentata per la prima volta al
Festival Intercity di Sesto Fiorentino nel 1997 con Blasted per
la regia di Barbara Nativi.
Luca Scarlini, da Sarah Kane, Tutto
il teatro, Einaudi 2000
*
La lucidità
si trova nel centro di convulsione, lì dove la folla viene consumata
dall’anima spaccata in due.
Mi conosco.
Mi vedo.
La mia anima è presa in una ragnatela di ragioni
tessuta da un dottore per aumentare il numero dei sani.
Alle 4 e 48
dormirò.
Sono venuta da e per essere guarita.
Tu sei il mio dottore, il mio salvatore, il mio giudice
onnipotente, il mio prete, il mio Dio, il chirurgo della mia anima.
Ed io sono la tua discepola verso la lucidità.
* * *
per realizzare traguardi e ambizioni
per superare gli ostacoli e raggiungere uno standard
elevato
per far crescere l’autostima mettendo a frutto
il mio talento
per superare le resistenze
per avere controllo e influenza sugli altri
per difendermi
per difendere il mio spazio psicologico
per affermare il mio io
per avere attenzioni
per essere guardata e ascoltata
per eccitare, stupire, affascinare, scioccare, incuriosire,
divertire, intrattenere o sedurre gli altri
per essere libera dalle restrizioni della società
per fare resistenza alle coercizioni e alle costrizioni
per essere indipendente ed agire seguendo i miei desideri
per sfidare le convenzioni
per evitare il dolore
per evitare la vergogna
per cancellare le umiliazioni subite con nuove azioni
per mantenere il rispetto di me stessa
per esprimere la paura
per superare la debolezza
per essere parte di
per essere accettata
per risultare attraente ed essere felicemente corrisposta
per conversare in modo amichevole, per raccontare storie,
cambiare sensazioni, idee, segreti
per comunicare, conversare
per ridere e fare scherzi
per guadagnarsi l’affetto dell’Altro desiderato
per saper accettare e rimanere fedele all’Altro
per godere dei rapporti sessuali con l’Altro
per nutrire, aiutare, proteggere, coccolare, consolare,
sostenere, curare o guarire
per essere nutrita, aiutata, protetta, coccolata, consolata,
sostenuta, curata o guarita
per dare vita ad un piacevole, durevole, solidale reciproco
rapporto con l’Altro, tuo pari
per essere perdonata
per essere amata
per essere libera
Sarah Kane, da Psicosi delle 4,48
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