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Angela Carter

Nel mio ambiente sono notoriamente conosciuta come una persona scurrile. È una nota contraddizione quella della gentildonna inglese di mezza età dal tono pacato che quando è provocata bestemmia come un carrettiere. Do la colpa a mio padre, che non era un inglese e nemmeno un gentiluomo ma scozzese e giornalista, che mi lasciò in eredità il turpiloquio e il gusto per tutto ciò che è carta stampata. Per cui sua figlia, in questi ultimi undici anni, ha scritto recensioni di libri per poi cancellare con la matita blu le prime viscere di reazioni come “maledettamente schifoso” o “fottutamente atroce” e poter dare un giudizio più equilibrato e oggettivo. Mio padre teneva accanto al letto un intero scaffale di classici tradotti nei Penguin: Omero, Tucidite, Apuleio. Mia madre preferiva Boswell, Pepys, adorava i pettegolezzi, specialmente quelli d’epoca, ma non confidava troppo nella invenzione narrativa perché credeva che la narrativa desse una visione non realistica del mondo. Una volta mi sorprese a leggere un romanzo e mi criticò aspramente: “Fa’ che io non ti ritrovi a farlo, ricorda cosa è successo a Emma Bovary”. Entrambi i miei genitori lasciarono la scuola a quindici anni, facendo parte di quella generazione di uomini e donne le cui menti erano piene di curiosità per la parola stampata. […] A mia madre piaceva leggere i libri di cucina tra un pasto e l’altro, specialmente durante il periodo del razionamento del cibo. Eravamo l’unica famiglia della mia classe che non possedeva un televisore. Alla fine ne comprammo uno, quando mio padre andò in pensione, in modo che lui potesse vedere il telegiornale; dopo di che le cose si avviarono verso il declino.

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Divisa tra giornalismo e narrativa, l’inglese Angela Carter (1940-1992) si inserisce nella produzione teorica degli anni Settanta del secolo scorso che rompe la convenzione di una voce narrativa centrale, quella maschile, e porta al consolidamento di una voce critica in ambito femminile. I generi diventano cornici, margini, soglie da attraversare e riattraversare, simulacri del passato che vanno ricordati e cancellati, palinsesti che vanno eternamente riscritti. Palinsesto multiplo è l’opera della Carter, dai romanzi alle fiabe, parabole di crescita e formazione femminile, probabile memoria del proprio corpo adolescente privato forzatamente del cibo. La scrittura della Carter, pungente e acuta, adotta un linguaggio ibrido tra il realismo satirico e l’affabulatorio, esplora il fantastico e l’erotico e fa vivere personaggi dall’ambiguità sessuale e dalla corporeità metamorfosata e mostruosa rispecchiando il poliformismo del romanzo tardo modernista. Pagine percorse da un linguaggio sovrabbondante, rutilante e carico di dettagli barocchi, da uno stile neogotico che ha radici nel folclorico e nel fiabesco e dal paradosso che diviene il ritmo del racconto. Definita “narratrice magico realista”, la Carter non nasconde di aver subito l’influenza di Jorge Luis Borges e sostiene di usare la letteratura europea come una specie di folclore convenendo con Borges che ogni libro tratti di altri libri (“la mia narrativa è spesso una specie di critica letteraria”).
Al suo romanzo d’esordio, Shadow Dance (1966), fondato sull’osservazione dell’ambiente metropolitano, segue The Magic Toyshop  (1967) che segna il suo accostamento alla fiaba e che la porterà anni più tardi a comporre The Bloody Chamber (1979), il suo capolavoro, una raccolta di racconti e di fiabe sul potere rovinoso della sessualità—rivisitazioni, riletture e paradossali variazioni della celebre favola della Bella e la Bestia che si confonde e si plasma sulla trama di Cappuccetto Rosso.
I suoi romanzi più celebri, The Passion of New Eve (1977) e Nights at the Circus (1984) segnano l’ingresso in un mondo abitato da esseri ibridi, da donne dalla femminilità ambigua, stridente, fallita, incroci tra mondo animale e umano. La Grande Madre di The Passion of New Eve è una dea nera, un essere mostruoso che rappresenta la fertilità autosufficiente: “La più oscena nudità la rivestiva interamente: aveva mammelle da scrofa – due file di capezzoli, risultato di una serie estenuante di innesti, le permettevano, in teoria, l’allattamento contemporaneo di quattro neonati. Le membra poi erano gigantesche! I piedi erano abbastanza pesanti da consentire da soli una conferma alla legge di gravità; le mani, a forma di enormi foglie di fico, erano abbandonate sui guanciali forniti dalle ginocchia”.
Fevvers, protagonista di Nights at the Circus, è una donna-uccello mastodontica, accumulo di arti e aggiunte anatomiche, barocca e decadente, che incanta le platee dei circhi di tutta Europa con il suo spettacolo acrobatico ma soprattutto esibendo il suo corpo e giocando sull’ambiguità tra verità e finzione: “Lo sterno proiettato in avanti come la prua di una nave, […] le ali in uno spiegamento policromo, con un’apertura di sei piedi, simile a quella di un’aquila, un condor, un albatro nutriti in eccesso con la stessa dieta che rende rosato il fenicottero”.
Nel suo ultimo romanzo, Wise Children (1991), la Carter continua ad esplorare il circo e il music hall – mondi paralleli alla realtà, suoi luoghi privilegiati, abitati da ipnotizzatori, imbroglioni, burattinai, artisti da quattro soldi – e li affianca a quello del teatro shakespeariano e al cinema hollywoodiano presentando il romanzo come rappresentazione di una galleria di rappresentazioni e riflettendo ancora una volta sull’ambiguità della finzione e sul doppio femminile.
Nella sua produzione narrativa si inserisce un’importante e consistente parentesi critica e giornalistica che la vede autrice di sarcastiche recensioni per prestigiose riviste letterarie come The Guardian, The Independent e New Statesman.

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Tutti i libri, anche i libri di cucina e i manuali di manutenzione dell’automobile, sono una narrazione. La narrazione è scritta con un linguaggio, ma si forma, se seguite il mio ragionamento, nel tempo. Tutti gli scrittori inventano una sorta di riproduzione del tempo quando inventano un tempo in cui la storia si svela, e mettono in atto un complicato gioco con il nostro tempo, il tempo del lettore, il tempo necessario a leggere quella storia. Un bravo scrittore può arrivare a farvi credere che il tempo si fermi.

Angela Carter

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Baudelaire, Poe, il Shakespeare del Sogno, Hollywood, la pantomima, la fiaba; la Carter non nasconde le proprie fonti d’ispirazione, poiché ne è la loro decostruzionista, la loro sabotatrice. Prende ciò che conosciamo e, dopo averlo ridotto in pezzi, lo ricostruisce nel suo modo acuminato e cortese; le sue parole sono nuove e non-nuove, come le nostre. […] Accusata di political correctness da chi non aveva nulla di meglio da dire, la Carter era una scrittrice individualista, indipendente e idiosincratica; considerata da molti quando era in vita una figura marginale, di culto, un fiore di serra esotico, ora è la scrittrice più studiata nelle università inglesi: una vittoria sulle tendenze dominanti che le avrebbe fatto piacere: non aveva finito. Come Italo Calvino, come Bruce Chatwin, come Raymond Carver la Carter è morta al culmine della creatività.

Salman Rushdie, prefazione a Il vuoto attorno, Corbaccio, 1995






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