Maeve Brennan
Era bellissima. Sofisticata, inquieta. “Era una donna minuta, affascinante, generosa e spiritosa, anche se non si sforzava affatto di esserlo; aveva occhi verdi, portava occhiali enormi con la montatura di corno e i capelli castani cotonati e raccolti in un’acconciatura simile a un grosso alveare.” La ricorda così William Maxwell, suo editor al New Yorker, oltre che caro amico e mentore.
Maeve Brennan è tra le signore della letteratura irlandese – della forma breve in particolare. Nasce a Dublino il 6 gennaio del 1917, mentre il padre Robert, militante repubblicano, è in galera per aver preso parte alla Rivolta di Pasqua. Maeve è figlia della rivoluzione dunque, e può conoscere il padre solo a cinque anni. Con la madre Una, le due sorelle e il fratello, vive a Dublino, nel quartiere Ranelagh, sulla Cherryfield Avenue:
From the time I was almost five until I was almost eighteen, we lived in a small house in a part of Dublin called Ranelagh. On our street, all of the houses were of red brick and had small back gardens, part cement and part grass, separated from one another by low stone walls over which, when we first moved in, I was unable to peer, although in later years I seem to remember looking over them quite easily, so I suppose they were about five feet high. All of the gardens had common end walls, which was, of course, very long, since it stretched the whole length of our street. Our street was called an avenue, because it was blind at one end, the farthest from us. It was a short avenue, twenty-six houses on one side and twenty-six on the other. We were at No. 48, and only four houses from the main road, Ranelagh Road, on which trams and buses and all the kinds of cars ran, making a good deal of noisy traffic.
Dal racconto autobiografico “The Morning after the Big Fire”
Scampato alla pena di morte, Robert Brennan esce di prigione ma è uno dei bersagli della polizia dello Stato libero. Si nasconde in posti diversi, sicuri, non vuole mettere in pericolo la moglie e i figli. In un racconto intitolato “The Day We Got Our Own Back” e pubblicato sul New Yorker del 24 ottobre del 1953 (confluito poi in The Springs of Affection), Maeve ricorda: “He was on the run, sleeping one night in one house and the next night in another, and sometimes stealing home to see us. I suppose my mother must have taken us to see him several times, but I only remember visiting him once, and I know I found it very odd to meet him sitting in a strange person’s house, and to leave him there when we were ready to go home”; e prosegue descrivendo due incursioni da parte degli uomini del governo nella sua casa di Dublino, in cerca del padre; il primo raid:
One afternoon some unfriendly men dressed in civilian clothes and carrying revolvers came t our house searching for my father, or for information about him. This was in Dublin, in 1922. […] They crowded into our narrow little hall, and tramped around the house, upstairs and downstairs, looking everywhere and asking questions. There was no one at home except my mother, my little sister Derry, and me. Emeer, my elder sister, and my mother’s chief prop, was out doing errands. I was settled comfortably on a low chair in our front sitting room, threading a necklace. I was five.
After the men had searched the house, they crowded into the room where I sat, from which they could watch the street. […] One of the men came and stood over me. He pointed out a blue glass bead for me to add to my necklace, but I explained to him that the bead was too small to slip over my needle and that I had already discarded it. This exchange with this strange man made me feel very clever. He leaned closer to me then.
“Tell us do you know where your Daddy is,” he whispered.
I stopped threading and began to think, but my mother flew across the room at him. She is a very small, thin woman with a pointed face and straight brown hair that she has always worn in a bun at the back of the head.
“Aren’t you ashamed of yourself?” she cried. “Asking the child questions.”
Il secondo raid, più sconvolgente:
The only other raid I remember took place about a year after that, and the men were rougher. Again there in the house only my mother, my little sister, and I. This time, the men came in the morning. My mother was getting along with her housework, and she had an apron tied about her waist. She had shined the brass rods that held our red stair carpet in place, and now she was polishing the oilcloth on the dining-room loor. The men crowded in as before, with their revolvers, but this time they searched in earnest. They pulled all the beds apart, looking for papers and letters, and they took all my father’s books out of the shelves and shook them, and they looked in all the drawers and in the wardrobe and in the kitchen stove. There was not an inch of the house they did not touch. They turned every room inside out. The newly polished oilcloth was scarred by their impatient feet, and the bedrooms upstairs were torn apart, with sheets and blankets on the floor, and the mattress all humped up on the bare beds. In the end they went back to the kitchen and they took down the tins of flour and tea and sugar and salt and whatever else there was, and plunged their hands into them and emptied them on the table and on the floor. Still they had found nothing, but the house looked as though it had suffered an explosion without bursting its walls.
*
Nel 1934 i Brennan lasciano Dublino – Maeve ha diciassette anni, studia al cattolico Cross and Passion College di Kilcullen (di cui parlerà in alcuni racconti piuttosto ironici come “The Devil in Us” e “Lessons and Lessons and Then More Lessons” pubblicati sul New Yorker) e scrive per l’Irish Press fondato, tra gli altri, dal padre –, si imbarcano sulla Manhattan e si trasferiscono negli Stati Uniti: Robert è infatti nominato primo rappresentante della repubblica d’Irlanda a Washington. E negli Stati Uniti Maeve rimarrà per il resto della sua vita.
A Washington la famiglia Brennan vive in un pacifico quartiere immerso nel verde, a Kalorama Park. Maeve studia alla Catholic University, conosce lo scrittore e critico teatrale premio Pulitzer Walter Kerr per il quale perde la testa (i due hanno una relazione, ma Kerr la lascerà per sposare un’altra donna), finché, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il padre, la madre e il fratello tornano in patria (le due sorelle, Emer e Derry, restano negli Usa) mentre lei si trasferisce a New York, a Manhattan.
Il suo primo alloggio è un hotel in Washington Square. Trova lavoro come bibliotecaria alla New York Public Library, nel reparto periodici, poi, nel 1943, inizia a scrivere di moda per la rivista Harper’s Bazaar (le donne della redazione indossano guanti bianchi e cappellini e sono solite bere tre martini prima di pranzo, come racconta Angela Bourke nella biografia Maeve Brennan: Homesick at The New Yorker, e Maeve ha “dark lipstick, high heels, and hair piled on top of her head”).
Nel 1949 approda al New Yorker chiamata daWilliam Shawn, allora vicedirettore (e direttore dopo la morte del fondatore Harold Ross), che le assegna lo stesso ufficio di Maxwell, al ventesimo piano del numero 25 della West Forty-third Street. Sulla parete dell’ufficio scrive a matita, in un punto dove anche Maxwell può leggerla seduto alla sua scrivania, una citazione di Yeats: “Soltanto ciò che non insegna, ciò che non chiede a gran voce, ciò che non convince, ciò che non accondiscende, ciò che non spiega è irresistibile”. Col tempo, a questa scritta se ne aggiungono tante altre, tra cui: “È pericoloso prendersi gioco di uno stupido. Dio”.
Maeve al New Yorker diventa una firma singolare, indimenticabile. Inizialmente si occupa di moda femminile e scrive perlopiù recensioni di libri, anonime; la prima recensione che firma è quella relativa a una raccolta di opere di Colette, la seconda, a un libro di Elsa Morante nella traduzione inglese. Nel ’54 comincia a scrivere brevi editoriali per la celebre rubrica “The Talk of the Town” della rivista che firma con lo pseudonimo di The Long-Winded Lady (la signora prolissa) e numerosi racconti, che verranno in seguito riuniti nelle raccolte In and Out of Never-Never Land (1969) e Christmas Eve (1974), e più avanti ancora nelle antologie postume The Springs of Affection: Stories of Dublin (1997) e The Rose Garden: Short Stories (2000). E postumo è anche l’unico scritto di più ampio respiro, una novella venata di malinconia, La visitatrice, risalente alla metà degli anni Quaranta e pubblicata in America nel 2000, in cui il suo alter ego, Anastasia King, dopo aver vissuto sei anni a Parigi, e in seguito alla morte della madre con cui viveva in Francia, torna a casa dalla nonna paterna a Dublino trovando soltanto freddezza e nessuna consolazione.
Maeve lavora senza sosta, è infaticabile. E scrive. Scrive di New York negli editoriali e di Dublino nei racconti, della città americana scintillante e al tempo stesso minacciosa e della claustrofobica patria cattolica. I pezzi per “The Talk of the Town” sono schizzi di varia natura, alcuni descrittivi altri più introspettivi, focalizzati su dettagli, eventi e aspetti minimali della vita, ambientati in ristorantini, piccoli alberghi, negozietti, popolati da creature avvinte dalla solitudine e alle prese con problemi di accettazione sociale, con la cecità del mondo. “Parlano sempre di New York: di un temporale osservato dalla finestra di un appartamento in prestito, di un uomo sempre colto nell’atto di pettinarsi, di un cane maleducato, dell’invisibilità, di ascensori automatici che cigolano e si muovono come se fossero poco sicuri e spesso si fermano al piano sbagliato, della luce del cielo in un determinato momento del giorno, di una parte della città con un’atmosfera di caducità e sciatteria, dei pensieri di persone viste una sola volta oppure immaginarie, di una gabbia piena di minuscoli uccellini in vendita nel seminterrato di un negozio dove tutto costa cinque e dieci cent, dell’apprensione nata da cause sconosciute, di un giovanotto che aspetta la fidanzata nel bar di quello che poi si rivela essere l’albergo sbagliato, di ciò che si nasconde dietro la curiosità che la spinge a leggere per prime, sul giornale del mattino, le pagine dei necrologi”, come ricorda Maxwell (dalla prefazione alla racconta Il principio dell’amore di Maeve Brennan, edita in Italia da Bur, 2006).
Quarantasette di questi editoriali scritti tra il 1953 e il 1968 vengono pubblicati nel volume The Long-Winded Lady nel 1969, tra cui un fulminante “Scelta dolorosa” (che risale al 18 settembre 1954):
L’altra sera mi trovavo in un nuovo, piccolo supermarket e aspettavo che mi sistemassero gli acquisti in un sacchetto, quando ho visto un uomo alto e trasandato con gli occhi rossi, che di certo beveva come una spugna sin dall’infanzia, cercare di decidere tra un barattolo di fagioli, un pranzo in scatola, una minestra in scatola e uno spezzatino di pollo in scatola. Aveva 37 centesimi, oppure 29, una cifra del genere, e se ne stava lì in piedi con quei quattro barattoli, li fissava e poi guardava le bancarelle di frutta, verdura, pane e così via. Non riusciva a decidersi cosa comprare per nutrirsi ed era chiarissimo che in realtà non voleva affatto del cibo. Ho pensato che non l’avrei biasimato se avesse rimesso le scatole sugli scaffali, o le avesse lasciate cadere sul pavimento e si fosse precipitato nel bar più vicino, dove avrebbe potuto semplicemente ordinare una birra e bersela. Poi mi è venuto in mente che, per dirla in maniera un po’ semplicistica, in genere esiste una sola cosa che desideriamo fare e che ci fa male, mentre se ci sforziamo di compiere gesti buoni o virtuosi la scelta è così grande e ampia che alla fine ci stanchiamo prima ancora di decidere. Voglio dire che l’impulso verso il bene implica una scelta complicata, mentre l’impulso al male è odiosamente semplice e facile. Mi dispiace per quel povero uomo alto con gli occhi rossi.
Ad aprire il volume c’è la nota dell’autrice, che parla della signora prolissa, di sé stessa:
[…] Now when I read through this book I seem to be looking at snapshots. It is as though the long-winded lady were showing snapshots taking during a long, slow journey not through but in the most cumbersome, most reckless, most ambitious, most confused, most comical, the saddest and coldest and most human of cities. Sometimes I think that inside New York there is a Wooden House struggling desperately to get out, but more often these days I think of New York as the capsized city. Half-capsized, anyway, with the inhabitants hanging on, most of them still able to laugh as they cling to the island that is their life’s predicament.
Even after more than twenty-five years the long-winded lady cannot think of herself as a “real” New Yorker. If she has a title, it is one held by many others, that of a traveler in residence. As a traveler she is interested in what she sees, but she is not very curious, not even inquisitive. She is not a sightseer, never an explorer. Little out-of-the-way places have to be right next door to wherever she happens to be living for her to discover them. She has never felt the urge that drives people to investigate the city from top to bottom. Large area of city living are a blank to her. She knows next to nothing about the Lower East Side, less about the Upper East Side, nothing at all about the Upper West Side. She believes that small, inexpensive restaurants are the home fires of New York City. She seldom goes to the theater or to the movies or to art galleries or museums. She likes parades very much. She wishes we could have music in the streets – strolling violinists, singers, barrel organs without monkeys. She thinks the best view of the city is the one you get from the bar that is on top of the Time-Life Building. She also likes the view from the windows of street-level restaurants. She hates being a shut-in diner. […] She wishes Tim Costello hadn’t died. She likes taxis. She travels in buses and subways only when she is trying to stop smoking. She regrets Stern Bros. department store, and Wanamaker’s, and all the demolished hotels, including the Astor. When she looks about her, it is not the strange or exotic ways of people that interest her, but the ordinary ways, when something that is familiar to her shows. She is drawn to what she recongnizes, or half-recognizes, and these forty-seven pieces are the record of forty-seven moments of recognition. […] I think the long-winded lady is real when she writes, here, about some of the sights she saw in the city she loves.
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La centralità di New York nei suoi editoriali viene apprezzata da John Updike in una recensione a The Long-Winded Lady pubblicata nel 1969 sull’Atlantic (in Italia, è la postfazione alla raccolta Racconti di New York, Bur, 2010): “A Maeve Brennan […] va il merito di aver riportato New York al New Yorker, descrivendo la città degli anni Sessanta con onestà e affetto. […] la Brennan è costantemente all’erta, la vista acuta di un passero, attenta alle briciole della realtà, a quanto udito per caso, visto di sfuggita, ipotizzato […]. È una sobria ma formidabile cesellatrice di frasi, come nella sua lunga poesia sull’ailanto (che non chiama mai ‘albero del paradiso’) o in quell’immagine della ‘luce del giorno che scorre come acqua fredda’ sulle scale curve e le pareti tappezzate di case diroccate in arenaria rossa. Poco alla volta dai suoi scritti sedimenta un ritratto malinconico delle strade di New York: ‘La vista notturna sulla Sesta Avenue è inquietante ora che gli isolati sul lato ovest della via sono stati per metà abbattuti e per metà abbandonati. […] [Charles] è una strada affascinante, se non fosse che di notte, come accade a tutte le viuzze di New York, le tocca indossare un’aria desolata e minacciosa a causa delle file e file di auto posteggiate lungo i marciapiedi: auto bloccate, in coda, che le rubano ogni particella di vita e di spazio. […]’”.
Nel 1954 Maeve sposa St Clair McKelway, scrittore e reporter del New Yorker, donnaiolo, alcolista e maniaco depressivo, alle sue quarte nozze e più grande di lei di dodici anni. Maeve non finisce in braccia protettive. E difatti il matrimonio si sfascia dopo cinque tempestosi anni, anche se i due si lasciano senza rancori. Maeve non si risposerà più. Vivrà da sola, cambiando con frequenza dimora.
Ed è proprio la vita coniugale il tema principe dei suoi racconti migliori. Coppie tormentate e infelici – su tutte, Rose e Hubert Derdon (protagonisti di racconti perfetti come “Mura domestiche” e “Una fame rabbiosa”, nell’edizione italiana edita da Bur col titolo La sposa irlandese, o “Una ragazza rischia di rovinarsi il futuro” e “L’annegato” in Il principio dell’amore) e Delia e Martin Bagot (“Il dodicesimo anniversario di matrimonio”, “Storie africane”, “Il principio dell’amore” in Il principio dell’amore) –, mariti e mogli che vivono sotto lo stesso tetto eppure drammaticamente lontani: uomini che deplorano e detestano le proprie consorti ma provano anche pietà per loro, e donne remissive, chiuse in sé stesse (come Rose Derdon, che pare sia stata ispirata da Una, la madre di Maeve), “inespresse, fiere e derelitte, implacabili e bisognose, alle prese con brutti pavimenti, scalini consumati, pareti scrostate, ottoni mai lucidi, culle dove si annidano bottiglie di veleno per topi, infiniti secchi di carbone da trasportare e mariti sposati per caso – in genere anch’essi bistrattati dalla vita” (come afferma Elisabetta Rasy nella postfazione a La sposa irlandese”).
Eccoli Rose e Hubert Derdon:
[…] la cosa peggiore che Hubert ricordava di quel giorno infelice era l’espressione di terrore che aveva attraversato il viso di Rose quando lui le aveva parlato in modo brusco. Era rimasto colpito dal terrore e dal dolore che le aveva letto in faccia. Si era limitato a risponderle male, colto da un’irritazione e da un’impazienza naturali – così si giustificava con sé stesso – ma lei aveva reagito come se fosse stata calpestata. Bastava un niente a metterla in ginocchio. Aveva davanti il piatto pieno, ma mangiava pochissimo e se ne stava a testa bassa come una bambina in castigo o un cane punito, furtivo. Poi l’aveva lasciata a lavare i piatti e quand’era tornato in cucina, dopo aver riacquistato il controllo, per suggerire la gita al parco, l’aveva trovata in piedi davanti all’acquaio a finire ciò che aveva lasciato nel piatto, e quando era apparso sulla porta, lei si era girata in preda al panico per nasconderlo, per nascondere ciò che stava mangiando, e lui le aveva voltato le spalle ed era tornato di sopra, fingendosi di non essersi accorto di nulla.
Non era mai riuscito a capirla: la sua segretezza, la sua furtività, il suo modo di interrompere ciò che stava facendo e correre a fare qualcos’altro nell’istante in cui lui entrava nella stanza, come se fosse impegnata in qualcosa di proibito. Aveva paura di lui e non aveva mai fatto alcun tentativo di controllare quella paura, senza dare ascolto a ciò che lui le diceva. Lui le ripeteva che avrebbe dovuto cercare di prendere le cose più alla leggera, affrontare la vita con meno serietà – cose così, che avrebbero dovuto rassicurarla. Ma lei lo temeva e la difficoltà stava tutta lì, ed era quello a sconfiggerlo a ogni ripresa, ed era quello il motivo per cui lui, gradualmente o alla fine – non si era reso conto di come fosse accaduto –, aveva rinunciato a ogni tentativo di stabilire con lei un qualsiasi tipo di rapporto.
Da “Una ragazza rischia di rovinarsi il futuro”, Il principio dell’amore
Ed ecco cosa accade nella casa di Delia e Martin Bagot:
In casa la situazione era innaturale, nessuno teneva realmente in considerazione gli altri. Quando Martin era in casa, lei diventava molto nervosa con le bambine, e quand’erano tutti insieme, non riusciva a impedirsi di tenerle d’occhio, come se Martin fosse lì soltanto per giudicarle. Era sempre tesa, pronta a difenderle da lui, pronta a prendersi la colpa di ciò che facevano, e pronta a rimproverarle bruscamente se accennavano a fare qualcosa che avrebbe potuto irritarlo.
Erano tutte molto più felici quando lui non c’era, e non era giusto. Avrebbe tanto voluto capire come comportarsi. Continuava a ricordare Martin com’era, bonaccione e sempre pronto a scherzare. A volte era ancora così, ma più spesso sembrava che cercasse di controllarsi, come se vederle tutte insieme e trovarsi rinchiuso con loro gli fosse insopportabile. E il fine settimana andava a passeggio da solo, lunghe passeggiate che lo tenevano lontano per ore. In casa c’era molta tensione. Lei era costantemente in ansia, come se potesse accadere qualcosa di terribile, o come se avesse fatto qualcosa di terribile e rischiasse di essere scoperta.
Da “Il dodicesimo anniversario di matrimonio”, Il principio dell’amore
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(I racconti della Brennan sono molto amati da due maestre di short story, entrambe canadesi: il premio Nobel Alice Munro che definisce Il principio dell’amore “uno dei miei preferiti tra i racconti di tutti i tempi” e Mavis Gallant che considera le sue storie “vere e incantevoli”. Anche Paula Fox ne sottolinea il vigore: “I racconti della Brennan sono irresistibili. È una qualità difficile da esprimere. Com’è possibile descrivere il vigore della sua lingua, la sua stupefacente freschezza?” – dalla prefazione a La visitatrice, Bur, 2005 –; e Claire Messud parla di eleganza e precisione, di prosa tagliente, per lei leggere i racconti di Maeve è “puro piacere letterario”.
Si dice che Maeve sia Holly Golightly di Colazione da Tiffany di Truman Capote, suo amico e collega al New Yorker – elegante, fuori dalle righe, amante dei gatti, raminga, sola.)
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Dopo la fine del matrimonio, Maeve cambia di continuo, intenzionalmente, casa. Trasloca di albergo in albergo, portandosi dietro i suoi amatissimi gatti e il labrador nero, Bluebell. Nel brano “Faraway Places Near Here”, contenuto in The Long-Winded Lady, fa un elenco dei principali alloggi avuti fino al 1962: Sullivan Street, Hudson Street, Tenth Street, Twenty-second Street vicino alla Ninth, Ninth Street vicino alla Fifth, Hotel Earle nel Village e così via. D’altronde, l’idea di casa come nido, come luogo stabile, di conforto, non le è mai appartenuta, compromessa nell’infanzia – nella novella La visitatrice Anastasia-Maeve definisce la casa “un luogo della mente”.
Maeve è sempre più inquieta, solitaria e vagabonda, beve molto e comincia a sviluppare disturbi ossessivo-compulsivi, inoltre è piena di debiti: “Fece mettere il parquet in un appartamento di città che non era suo, poi scoprì che preferiva abitare all’Hotel Algoquin e lasciò l’appartamento vuoto fino alla scadenza del contratto. Poi prese una casetta nei pressi di Rindge, nel New Hampshire. Com’era ovvio, contrasse dei debiti. Aveva una preziosa biblioteca di autori irlandesi, che impegnava quando non trovava altro modo di procurarsi un po’ di denaro. I libri furono spesso recuperati da un collega che amava compiere gesti di bontà anonima, poi scomparvero per sempre. Quando tornò in città, il New Yorker le impedì di finire nell’indigenza offrendole un posto dove stare quando avesse voluto e dove trovare cibo e riparo. Nessuno sa quante volte se ne sia servita. Aveva cominciato a soffrire di manifestazioni psicotiche e si sistemò nella toilette delle signore del New Yorker come se fosse la sua unica casa. Nessuno glielo impedì e le segretarie tolleravano, se pur nervosamente, il suo comportamento, a volte allucinato, che poteva anche diventare violento”.
La desolante condizione di Maeve, barricata nel bagno del New Yorker, è la stessa che tempo prima aveva fatto vivere a un suo personaggio, Mary Ramsay, l’intrattabile addetta alla toilette per signore del Royal Hotel di Dublino, protagonista di “Un sacro terrore”, uno dei primi racconti pubblicati dalla rivista:
Mary Ramsay, voce ruvida, mani ruvide in tutti i modi possibili. Con quella lingua ti scorticava vivo, dicevano all’hotel. Tutti avevano paura di lei.
[…] Era dipendente dell’albergo da trentasette anni, in una mansione o nell’altra. Non si poteva certo dire che non avesse dato la vita per quel posto.
Aveva una poltroncina di bambù bassa e malandata, sistemata dietro un paravento nell’angolo dell’antibagno, dove c’erano gli specchi e i tavoli da toeletta. Seduta su quella sedia, con un cuscino sotto di sé e uno dietro la schiena, aveva la visuale completa di ciò che accadeva, pur essendo nascosta alla vista di chi entrava. Restava seduta lì per la maggior parte del tempo, e lì consumava anche i suoi pasti, fra un’ora di punta e l’altra, disposti su un vassoio sul tavolo di fianco a lei.
In tanti anni di servizio aveva collezionato alcuni privilegi. Occupava ancora la sua stanzetta confortevole all’ultimo piano, anche se molti dipendenti dell’hotel avevano dovuto trovarsi una stanza a pensione e portarsi via le loro cose. Tutti i suoi averi erano ammassati in quella stanza, ma Mary aveva dei soldi in banca. Il suo grande piacere era risparmiare, e le mance si accumulavano.
La stanza da letto le serviva per dormire e, occasionalmente, per conferire con la sua amica del cuore, la signora Bailey, la centralinista più anziana. Il resto del tempo, dalle dieci di mattina alle dieci di sera, stava seduta tra gli specchi e i lavandini della toilette per signore. Di rado, per non dire mai, si prendeva una vacanza. La toilette per signore era il suo teatro e il suo regno. Odiava starne lontana anche solo per poco. Il suo potere era immenso.
I folti capelli grigi erano raccolti in uno chignon in cima alla testa e, sotto, quei suoi occhietti insulsi e meschini ti squadravano da capo a piedi. Mentre ti specchiavi, pettinandoti e incipriandoti, lei veniva a mettersi in piedi accanto a te, e osservava ogni tua mossa. Aveva il diritto di stare lì: era un suo preciso dovere. Non c’era modo di sfuggirle. […]
Impossibile dire dove sarebbe potuta arrivare se avesse avuto più cervello o più ambizione.ma nella toilette per signore era soddisfatta e si sentiva a casa.
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William Maxwell ricorda così l’ultimo cupo periodo della sua amica: “Negli ultimi dieci anni della sua vita entrò e uscì dalla realtà in un modo che spezzava il cuore a guardarla e che soltanto gli ospedali potevano affrontare. Molti anni prima aveva scritto sulla parete del mio ufficio, sotto la citazione di Yeats: ‘Un certo grado di autostima è necessario perfino ai pazzi. Conrad’”.
E ricorda che tra le tante lettere che Maeve gli ha scritto nel corso degli anni ce ne è una particolarmente significativa, un messaggio su carta rosa, senza data:
Caro William
tutto quanto è una favola
con affetto
Maeve
Si tratta delle nostre vite—
Io non ce la faccio.
E Maeve non ce la fa. I nervi la abbandonano.
Muore in solitudine, in una casa di riposo del Queens, il primo novembre del 1993.
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