Gianni Borgo
“Vivo a Torino, ma potrei stare ovunque”, sono le parole di Gianni Borgo, cosmopolita fondatore della casa editrice Instar di Torino. La sua breve esistenza, infatti, Gianni Borgo la passa tra l’Italia e i paesi anglofoni, soprattutto a Londra dove ama passare le giornate alla National Library a cercare libri da pubblicare per la sua casa editrice. Per Borgo, Londra è il crocevia culturale tra Europa e Stati Uniti ed è proprio a Londra che trascorre la maggior parte della sua vita, fino al 25 aprile 2001, quando, in un caffè di Bloomsbury, mentre sta ordinando un libro su Amazon, viene stroncato da un infarto. Muore a soli quarantadue anni.
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“Borgo era un editore al quale guardavamo come a un punto di riferimento. Perché faceva solo libri nei quali credeva. Pochi, ben curati e sostenuti con convinzione.”
Sandro Veronesi, parlando dei modelli della casa editrice Fandango
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I libri pubblicati dalla Instar dal 1993 alla morte di Borgo sono pochissimi, meno di venti, ma sono tutti di estrema qualità contenutistica e formale. A livello grafico i libri pubblicati da Borgo si distinguono per l’estrema cura nel disegno delle copertine (a volte venivano recensite solo quelle!) e per la grafica innovativa e diversa per ogni volume, a testimonianza dell’interesse per il libro come oggetto esteticamente gradevole da un punto di vista formale oltre che ideale. Nonostante gli altissimi costi di produzione di ogni singolo libro, i prezzi di copertina sono sempre rimasti accessibili, perché Borgo preferiva vendere molte copie – senza trarne profitto – per diffondere il marchio piuttosto che guadagnare il giusto con un prezzo non accessibile a tutti. Per questo motivo, con alcuni libri, l’editore andava addirittura in perdita per ogni copia venduta. Ma l’interesse di Borgo per i dettagli economici era del tutto assente: “Gli editori sono quasi sempre ricchi di famiglia”, diceva; e l’editoria di qualità è un mestiere che si pratica per passione, non per denaro.
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Gianni Borgo, la prima domanda è la più ovvia: da dove arriva questa cura verso la parte grafica del libro?
Fino alla metà degli anni Ottanta, le copertine dei libri, dappertutto, erano sostanzialmente una gabbia rigida con titolo, autore e un’illustrazione, come avviene ancora adesso in Italia. L’innovazione è partita dal Regno Unito: una serie di grafici che lavoravano in campo discografico sono stati assunti dalle case editrici e hanno cambiato il modo di concepire il libro. Ogni copertina è diventata il frutto di un lavoro creativo da parte dei grafici. Questo ha fatto sì che l’insieme copertina-testo venisse recepito come un tutt’uno: è un modo per innalzare l’oggetto-libro a pezzo unico. Mentre in Italia si saccheggiano i musei in cerca di quadri d’autore per le copertine dei libri, in Inghilterra i grafici si affidano a tecniche ad effetto come il collage, per creare qualcosa che prima non c’era. Continuando l’antipatico confronto, in Italia il libro sembra esistere unicamente in funzione della casa editrice. Graficamente riconosciamo al volo un libro Einaudi o Adelphi e soltanto dopo ci concentriamo sul nome dell’autore o sul titolo. Quando io ero al liceo, molti leggevano tutti i saggi pubblicati da Feltrinelli senza interrogarsi sull’autore. Il mercato anglosassone è generalmente più maturo, il lettore inglese o americano non è così schiavo dell’editore. In Inghilterra, le librerie dividono i libri per autori, non per case editrici e questo è sintomatico di un diverso approccio alla cultura. Io, da parte mia, a volte non metto nemmeno il nome della casa editrice, sui miei libri, tanto si distinguono in quanto caratterizzati stilisticamente. Ho sempre mirato all’unità (come dicevo, il libro è riconoscibile come Instar) nella varietà (ogni copertina è frutto della lettura del testo da parte del grafico e dunque è realizzata su misura per quel testo) Perché? Perché per me la copertina è un manifesto che esalta in modo pertinente le caratteristiche del libro.
Come hai conosciuto i grafici inglesi?
Per rispondere a questa domanda devo fare un po’ di autobiografia: a ventiquattro anni mi sono laureato in Lettere. Avevo immediatamente perso ogni interesse nella possibilità di una carriera accademica (mi sono accorto che era una strada verso l’isolamento e non verso la comunicazione con la gente), così mi è venuto in mente che avrei potuto fare l’editore. Per intraprendere un’attività imprenditoriale occorre sempre avere qualche conoscenza di economia, che io non avevo, dunque ho seguito un corso di economia in Inghilterra. Il corso era per laureati in Economia e Commercio, puramente teorico e, sebbene non mi sia servito concretamente a niente, mi ha aperto gli occhi su realtà diverse da quella letteraria. Tra l’altro, per seguire il corso, ho anche imparato l’inglese, cosa utilissima se si vuole fare l’editore.
A Londra mi sono accorto di un modo diverso di fare libri, più attuale e contemporaneo. Divago un attimo: dico sempre che il mio pallino è la contemporaneità, io pubblico solo autori in vita, opero quasi un razzismo cronologico.
Tornando a Londra: il pragmatismo inglese si applica anche alla cultura. La rivoluzione grafica degli anni Ottanta è nata da grafici di piccole agenzie che il più delle volte collaborano con dei fotografi. Costano tanto come quelli italiani ma dimostrano un atteggiamento più creativo. Leggono il testo e poi lo reinterpretano. Per me è stata una rivelazione e da quando ho cominciato a fare l’editore mi sono sempre rivolto a loro.
Perché tutti autori stranieri?
Perché non ho la forza per seguire un esordiente e non voglio saccheggiare altri editori. Visto che il mio compito è quello di essere un tramite tra l’autore e i lettori, attualmente non renderei un servizio all’autore esordiente e neppure al lettore: sarei un cieco che conduce un cieco. Dunque non è esterofilia ma puro buon senso…
Pubblichi soprattutto autori anglosassoni.
Sono dieci anni che esploro il mondo anglosassone. Per me è più difficile capire il reale valore di un autore tedesco o francese, perché non conosco bene quegli universi letterari come quello anglosassone.
Prima hai accennato a un tema interessante e sul quale possiamo dire di essere d’accordo: la tua ossessione per la contemporaneità. Ci puoi dire qualcosa di più?
Badate che è una scelta editoriale come un’altra… in parole povere io dico: se dopo dieci anni un libro non lo legge più nessuno, non importa perché deve piacere adesso. Il libro è un oggetto da usare e non deve mai incutere timore reverenziale.
La tua collana Saggia/Mente è un bell’esempio di quanto ti interessa fare: saggi anti-accademici e che sembrano romanzi, eppure…
Eppure alla Instar i libri di saggistica sono curati in modo molto specialistico. Personalmente io mi occupo delle bibliografie e cerco sempre di completarle il più possibile, non accontentandomi delle informazioni contenute nella versione originale del saggio. Ricerco puntigliosamente e a volte impiego anni soltanto per la bibliografia…
…ho dei forti pregiudizi sulla saggistica italiana (non sulla narrativa, sia ben chiaro). Vorrei pubblicare un giorno dei saggi tipo quelli che pubblico io, scritti da italiani, trovare persone non necessariamente accademiche in grado di comunicare col pubblico. Saggi rigorosi ma che si leggano come romanzi. Mi piace esplorare la zona di confine tra saggio e romanzo e infatti nella collana Saggia/Mente trovano spazio testi narrativi come Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer e quello di André Brink (La Prima vita di Adamastor).
In quanti siete in casa editrice?
Siamo in quattro. Io curo la scelta dei testi, direttamente sul posto. Vado a Londra e mi piazzo alla National Library a tempo pieno. Non uso lettori. Tra i pochi talenti che ho, uno è quello di capire al volo se un libro è valido. Bastano poche frasi per valutare la qualità di scrittura anche se, qualche volta, succede che un libro promettente si riveli una delusione. In quattro, chiaramente, facciamo quello che possiamo. Vivo la classica crisi di crescita. Mi piacerebbe creare un gruppo fisso di lavoro, una redazione che diventi anche una specie di ‘marchio di garanzia’. Uno dei mali dell’editoria di questi anni è che non ci sono più le redazioni fisse, ma le case editrici demandano tutto ad esterni. Sto cercando di aumentare la produzione (fare uscire quattro o cinque libri all’anno, alla fine, è controproducente) ma mi diventa sempre più difficile perché la cura che ci metto richiede molto tempo e dunque c’è il rischio di aumentare la produzione e diminuire la qualità. Poi io mi occupo anche della revisione delle traduzioni. La questione delle traduzioni è fondamentale: io preferisco una traduzione con gravi errori di interpretazione ma scritta in un bell’italiano, piuttosto di una sciatta che andrebbe riscritta completamente. Il fatto è che un traduttore professionista pretende di sbrigare un romanzo in un mese, perché ne ha altri che lo aspettano.
Questa fretta si scontra con il fatto che le traduzioni da certe lingue richiedono una immedesimazione totale in una cultura diversa, altrimenti si rischia di fare uscire un testo scritto in una lingua che non c’è. Certe traduzioni dall’americano sono soltanto traduzioni dall’americano, non sono un testo in italiano… dunque io appoggio la teoria della traduzione “bella e infedele”… richiede sicuramente uno sforzo creativo notevole dal traduttore, ma si legge molto meglio.
Veniamo ai titoli che hai pubblicato finora. Vai pure a ruota libera…
[Cerca nel mucchio di libri che affollano il tavolo…]
Inizio con una anticipazione: questo è uno dei prossimi che uscirà, è di Geoff Dyer e si chiama in originale The colour of memory, tradotto Il colore della memoria. Si tratta del terzo libro di Dyer in Italia (tutti editi da Instar), ma è il primo che lui ha scritto… è un romanzo autobiografico, parla di un gruppo di giovani che cerca di sopravvivere a Brixton, uno dei quartieri più degradati di Londra.
[Borgo fa vedere alcune bozze per la copertina e ci illustra doviziosamente le immagini: “Queste sono davvero case di Brixton… e questi sono interni di alloggi di Brixton, capite?…”].
Poi questo libro, Contronatura di Jenny Diski… a proposito della Diski, devo dire che a volte mi trovo a combattere con case editrici molto potenti, e infatti Rizzoli mi ha portato via la Diski, mentre Mondadori ha cercato di strapparmi Dyer. Per Dyer ho fatto davvero uno sforzo perché è il mio autore simbolo, oltre ad essere un amico. Per Jenny Diski confesso che avevo già deciso di non pubblicarla per vari motivi: prima di tutto i libri della Diski sono sempre autobiografici e dunque tutti molto simili fra loro. Contronatura è nettamente il suo libro migliore e quindi posso considerarmi soddisfatto in questo modo. Visto che non è un’autrice da best seller mi sono detto: “Perché svenarsi?” e l’ho lasciata andare. Non è facile decidere se pubblicare soltanto il meglio degli autori o tutto il catalogo. A volte è più comodo acquisire l’intero catalogo, ma con autori come la Diski il rischio è grande…
E poi il più atteso in assoluto: Vikram Chandra.
Lui è un inglese/indiano e le cose più interessanti degli ultimi anni in Inghilterra arrivano proprio dalle ex colonie. Il libro è strutturato a scatole cinesi, un racconto che apre altri racconti e così via. Gli scrittori delle ex colonie scrivono in inglese, forzandolo per esprimere concetti che la lingua inglese padrona non riesce ad esprimere. È molto più ricca. Anche Il Dio delle piccole cose di A. Roy è molto difficile, è un inglese barocco. Non so come può essere stato tradotto in italiano. La società inglese è rigidamente divisa in classi e tutte le arti vivono questa doppia esistenza: tradizione e innovazione, senza una via di mezzo. Una nazione con forte tradizione scatena reazioni altrettanto forti. In Italia manca una tradizione forte e tutto è più blando. I coloniali sfuggono a questo meccanismo mentre gli inglesi no. Si hanno scrittori tradizionali tipo Antonia Byatt o ‘teppisti’, come Irwin Welsh.
Altri autori che stai per lanciare?
Stiamo per pubblicare Mick Jackson, trentotto anni, ha già fatto il cantante, il documentarista, adesso si occupa di scrittura a tempo pieno. È il suo primo libro, si intitola The Underground Man ed è la storia di un eccentrico dell’Ottocento che si fa costruire sotto la tenuta una serie di gallerie. È tutto basato sul tema del sotterraneo, sui labirinti della mente alla luce della scienza vittoriana, frenologica. Questo è sintomo di come sia tornato attuale Darwin in Inghilterra. L’ho scelto perché è scritto con un tocco di umanità straordinaria.
Quali sono i best seller della Instar?
Merlino di Michel Rio e con Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer alla quarta edizione (naturalmente ogni edizione ha un packaging diverso). Vi dirò che anche Complessitá di M.M. Waldrop non sta andando male, ne ho vendute circa 6000 copie.
Come si tara la tiratura del libro?
Ci sono agenti che girano per le librerie con una copertina e una scheda del libro e in base alle prenotazioni si stampa un tot di copie. Le stime iniziali di Natura Morta erano di 2000 copie, ma ho avuto il colpo di genio di farne stampare subito 6000 e ho avuto ragione.
Cosa ci dici di Complessità, cui accennavi prima?
È un saggio in cui l’autore fa un po’ la summa di tutte le teorie del caos degli anni Ottanta. Queste teorie, che ammettono un certo grado di casualità e di inspiegabilità nel sistema delle leggi scientifiche, rappresentano una tendenza eretica della scienza contemporanea, tendenza vista con sospetto dall’accademia. Per certi versi potrebbe confondersi con certe trovate New Age, ma facciamo molta attenzione a non scivolare in quell’ambito… è un crinale pericoloso…
Qual è il libro Instar che è andato peggio?
Quello sul Vietnam. Si chiama I denti del drago, di R. Olen Butler. il nostro primo libro di racconti. Sono tutte storie di vietnamiti che abitano negli USA… pensare che ha vinto il premio Pulitzer… probabilmente il tema del Vietnam è stato sfruttato dal cinema e ha finito per stancare e poi, in fondo, è un argomento importante per la cultura degli USA, ma poco rilevante per la quella italiana.
I tuoi libri costano relativamente poco, nonostante siano molto curati.
Adotto la politica dei prezzi bassi perché preferisco vendere più copie con meno profitto. Ho bisogno di far conoscere il marchio.
E sugli scrittori già famosi cosa ci dici?
In poche parole: Martin Amis vuò ffà l’americano, Will Self è bravo ma molto difficile da tradurre, mi ha deluso molto Julian Barnes, Jeanette Winterson mi piace ma vende poco, McEwan è il numero uno dell’establishment.
Ultima domanda sulle riviste letterarie, quali leggi, come dovrebbero essere?
Come “aspirante” editore sin dall’inizio mi sono posto due regole: mai pubblicare poesia, mai pubblicare una rivista. Sono due imprese disperate. Io ho un ricordo, quando ero ragazzo leggevo con avidità e con passione alfabeta, era molto bella. È uscita dal 1978 per una decina d’anni, per iniziativa di Umberto Eco. Era bella perché era una rivista in cui c’era un vero dibattito intellettuale. Altre riviste mi danno l’impressione di essere fatte per chi vuole fare bella figura in società, sapere qualcosa sui libri che vanno di moda al momento. Manca una motivazione autentica. Ma io mi chiedo, hanno ancora senso le riviste?
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“Il libro non ha alcun primato rispetto ad altri stimoli culturali che hanno altre forme. L’editoria non è certo il più nobile degli artigianati. Il fatto è che il libro è uno straordinario strumento di comunicazione, spalanca scenari forti, spesso è necessario all’esistenza. Anzi, dovremmo fare solo libri necessari. E curarli molto bene.”
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La cura grafica e la qualità dei libri pubblicati dalla Instar sono notevoli, e si tende ad un ritorno al libro come oggetto in un momento in cui i sistemi di produzione e i nuovi bisogni del mercato tendono a farlo scomparire grazie allo sviluppo di nuove tecnologie.
Il libro è importantissimo perché è un oggetto organico, non semplicemente il contenitore di un testo. Per questo la Instar ha scelto di valorizzarlo al massimo, sia cercando di scegliere autori e argomenti rilevanti (per esempio Chandra, Dyer) sia sfruttando al massimo le possibilità offerte dalla tecnologia, per conferire al libro una veste contemporanea che estenda il progetto grafico dall’esterno all’interno del libro, realizzando una copertina su misura del testo (a differenza della politica attuata dagli altri editori). Questo è possibile perché ogni copertina è frutto del lavoro di un grafico che ha letto il libro da cima a fondo.
Qual è la linea editoriale della Instar? Si occupa solo di narrativa o pubblica anche libri di saggistica?
Pubblichiamo anche libri di saggistica, ma le opere della collana Saggia/MENTE sono libri di confine: trattano argomenti rilevanti e sono scritti sotto forma di saggio, ma possono essere letti anche come romanzi, perché sono scritti con il piacere della scrittura. Nella collana Saggia/MENTE, infatti, abbiamo pubblicato anche libri di narrativa come Natura morta con custodia di sax.
Un’altra caratteristica della Instar è quella di pubblicare libro molto corposi.
Un buon libro è un’esplorazione, una finestra sul mondo.
Se un romanzo è ben scritto è meglio che sia lungo, perché il lettore non vuole staccarsene, e la lunghezza prolunga il piacere della lettura. Il libro, attraverso un lungo viaggio tra le sue pagine, prende per mano il lettore per condurlo da un punto A a un punto Z.
Le traduzioni dei libri Instar, come tutto il resto, sono molto curate, anche se la cura, talvolta, vuol dire non rispettare gli stretti tempi dell’editoria…
Un buon libro mette chi lo legge in contatto con altri libri, portandolo a confronto con altri argomenti e temi importanti della società contemporanea, e pubblicare buoni libri è l’obiettivo di Instar.
La Instar pubblica solo autori stranieri, ed è quindi naturale fare in modo che la traduzione sia molto accurata. Il libro deve essere scritto in italiano, a tutti gli effetti: il lettore non deve avere modo di rendersi conto che sta leggendo una traduzione, anche se questo vuol dire che i nostri libri si fanno attendere a lungo. Se accade, è solo per rispetto del lettore, che deve essere servito con il massimo della qualità.
Estratti dell’intervista a Gianni Borgo disponibile sul sito www.zoooom.it
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