Tim Burton
Everyone wondered, but no one could tell,
When would young Oyster Boy come out of his shell?
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Tim Burton racconta lo spazio obliquo della fantasia, l’evanescente confine tra sogno e realtà.
È un bambino nostalgico, è un bambino che vede dove tutti gli altri credono che non ci sia niente, e immagina, inventa figure surreali, outcast mostri fantasmi, scompone e ricompone la realtà, la colora di tinte insolite, cupe e sfavillanti. È un bambino che teme la normalità, perché questa annulla le iperboli della fantasia, genera inquietanti non-luoghi, pietrificati, svuotati del colore, popolati di personaggi dai sentimenti raggelanti.
Le sue favole cinematografiche sono partiture d’orchestra stregate e malinconiche, con un incedere lieve e stralunato, lo stesso dei suoi protagonisti dai tratti gotici e robotici, i freak i morti gli altri i diversi, mostri delicati e tristemente comici, disarmati nonostante l’aspetto che fa orrore.
Dalla celluloide all’inchiostro sfilano “ragazze solforose, bambini ostrica e bambine con molti occhi: come sono inquietanti i piccoli personaggi di Tim Burton, innervati di nevrosi e malattie metropolitane. Non cresceranno mai e rimarranno come Peter Pan perché l’arco della loro vita è breve e accidentato. Sono figure struggenti, disegnate con grafite e parole in neogotico, piccoli E.T. spaesati o fiabeschi che emanano ad ogni parola, ad ogni gesto un alone di meraviglioso di incantesimo, subito frustrato dagli adulti, genitori, medici o normali che siano” (Tim Burton, Morte malinconica del Bambino Ostrica e altre storie, Einaudi, 2006, note di traduzione di Nico Orengo).
La poetica di Tim Burton è l’elegia dell’altro, del bizzarro: ciò che si qualifica come segno apparente di emarginazione si tramuta in affrancamento dalla banalità, liberazione verticale dalla gabbia della ripetitività: questi dolenti altri, infusi di magia poetica, offuscano con infinita grazia la mediocrità dell’uomo comune.
La visione della realtà è sovvertita, deformata: il mondo reale è tetro, statico, incastrato in una fissità che sembra morte, e ad esso si contrappone il mondo immaginato che è multiforme, colorato, allegro, svincolato dal conformismo dell’ordinario, il mondo di Edward mani di forbice, di A Nightmare Before Christmas, di La sposa cadavere, di Big Fish, capolavoro dorato, testimonianza di passaggio e scambio dolce tra reale e irreale con l’aggiunta di un vero e proprio trattato sulla “pratica dello storytelling, sulla tradizione orale delle favole raccontate prima di dormire allo scopo di tranquillizzare o intorno ad un fuoco per terrorizzare. La dicotomia dei due ambienti, life e larger-than-life, è tracciata con decisione fin dalle prime battute della pellicola. Ma Tim Burton ci ha abituati alla mescolanza dei due mondi, a quella zona del crepuscolo in cui sembra che la magia possa penetrare nella realtà e confonderla, arricchirla, renderla cinematica” (Alberto Zambenedetti).
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Io credo che alle volte l’immaginazione e la fantasia rappresentino quasi un dovere. Non sono mai stato bravo in matematica, perché – in genere – la matematica richiede sempre un’unica soluzione. Personalmente ho sempre stimato molto i maestri che sapevano insegnarmi a trovare più soluzioni per problematiche differenti. Credo che questa sia una maniera più interessante e sana di insegnare: pensare, stimola la creatività a guardare le questioni della vita da diverse angolazioni. Il fantastico serve a diventare persone in grado di guardare alla vita in maniera diversa e più articolata, a sfuggire una visione unilaterale della realtà. Quando ho visto Frankenstein per la prima volta mi sembrava un’allegoria della cittadina dove vivevo io in California. Credo che la fantasia possa insegnare molto riguardo alla realtà e che paradossalmente possa risultare persino più “realistica” ed accurata.
I titoli di testa sono sempre stati una mia ossessione, credo sia un momento molto importante dei miei film che, non essendo mai basati su una realtà visiva “comune”, come cioè noi la percepiamo normalmente, aiutano a stabilire qual è il tono, il gusto e l’atmosfera nella quale si muoverà poi la storia. Questa personale interpretazione della realtà è anche, in un certo senso, simile a quella che un ipotetico Dio potrebbe dare di una sua creazione […] affinché aumenti l’entusiasmo e la partecipazione del pubblico, la capacità di farsi prendere per mano e percepire sin dall’inizio dove questo viaggio lo condurrà.
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Big Fish è un film su ciò che è reale e su ciò che è fantastico, su ciò che è vero e su ciò che non lo è, su ciò che è parzialmente vero e che, alla fine, risulta essere tutto vero. Si tratta di un buffo mosaico di film. Non lo puoi circoscrivere in nessuna immagine o idea precisa. È come un puzzle. Sai di che si tratta eppure ci arriva ognuno in modo diverso, come succede nella vita.
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