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Percival Everett
Deserto americano

Sono solo uno che non riesce a morire.

È una realtà sconvolgente, una trasformazione radicale, impossibile, quella da cui trae inizio questo romanzo.
Theodore Street, stanco di tutto e di tutti, esce di casa deciso a porre fine alla sua esistenza. Soluzione suicidio. Street ha fallito su tutti i fronti: la sua carriera universitaria si è inceppata, il suo matrimonio a rotoli. Nemmeno l’amore per i figli e le scappatelle con le studentesse gli bastano più. E mentre a bordo della sua Lancia si sta recando al luogo prescelto per togliersi la vita, viene centrato da un camion. Risultato: un corpo senza testa e una testa. Decapitato.
Nel bel mezzo del funerale, Street, la cui la testa gli è stata malamente riattaccata, si risveglia; come se niente
fosse esce dalla bara e, tra lo sgomento dei presenti – lì, cerimoniosi a porgere quello che pensavano fosse l’ultimo saluto –, li squadra “ad uno ad uno ricordandone la voce e ciò che di buono o di cattivo avevano detto o fatto nei suoi confronti”, liberandosi così del male che aveva dentro. E dev’essere stata una purificazione singolare perché da quel momento, da morto, Theodore Street è un altro uomo.
È, però, l’inizio dell’inferno. I media strepitano, si accampano di fronte a casa sua, si contendono l’intervista
esclusiva con il morto, anche perché un uomo così – cioè un morto redivivo – fa gola a molti: ai fondamentalisti e ai fanatici religiosi che lo credono rispettivamente un demonio incarnato e il messia; all’esercito, smanioso di poter creare (e clonare) un plotone di soldati invincibili. Sì, perché Ted Street, apparentemente, non può più morire, è invulnerabile, non ha alcuna funzione vitale, eppure è lì, più uomo di prima, vivo nella sua vita a spiegare perché non è morto, a fare i conti con la crisi del suo matrimonio, col terrore che i figli provano nei suoi confronti e con l’inaspettata capacità di entrare nella mente e nel passato
delle persone.
Everett, naturalmente, sta parlando di tutt’altro, la sovrastruttura è implicita ma invisibile. Il messaggio invece è durissimo: quello che appare come un thriller che fa ridere dalla prima all’ultima riga è in realtà una profonda riflessione sulla morte – sulla tentazione di non esistere – e sul senso della vita. Un attacco alla deriva del mondo occidentale contemporaneo.

La morte è soltanto un punto
senza dimensioni nel tempo.


Biografia del libro
Confessa Everett: “Un giorno avevo una terribile emicrania e – come spesso accade quando ho il mal di testa – ho pensato: ‘E se mi tagliassi via la testa?’.”. La testa per fortuna è rimasta al suo posto ma in Deserto americano a perderla è Ted Street, un inetto contemporaneo che diventa eroe suo malgrado. “C’è abbastanza di me in Ted Street, così come c’è un po’ di me sparso in tutti gli altri personaggi del libro”. Everett era così spaventato dal suo progetto e dal suo morto vivente che decise di assumerlo come narratore, ma non in prima persona. Quest’espediente è uno dei gangli narrativi del libro: “È Ted a raccontare la sua storia. Ha scelto la terza persona perché, di fatto, è fuori di sé, morto. Come è possibile che possa scrivere? Come è possibile che Ted si muova nel mondo con un corpo privo di qualunque funzione vitale? È possibile perché nell’immaginazione la verità è sempre più forte dei fatti e della cosiddetta realtà”.
Il titolo originario del manoscritto era Making Jesus, ma l’editore Hyperion, evidentemente, ha avuto meno coraggio del suo autore. Difficile dire se abbia avuto ragione, ma sta di fatto che Deserto americano è il libro di maggior successo commerciale di Everett, il quale, disincantato, lo considera al pari degli altri, “come tutti i miei libri l’ho lasciato libero: deve imparare a cavarsela da solo”.


Selezione stampa
- “Deserto americano […] fa ridere molto. […] Everett dissemina il testo di battute. […]. Dietro il consueto funambolismo tecnico, Everett consegna un testo alfiere di sani valori morali, segna un punto per l’esercito del riscatto.”
Federico Novaro, L’Indice, marzo 2010

- “Percival Everett è un autore di grandissimo interesse, capace di alternare la sperimentazione letteraria alla narrativa di ampia fruizione, al punto che sembra reinventare sé stesso a ogni nuova opera. […]. Questo Deserto americano […] si legge con il gusto di un romanzo d’azione, ma si percepisce che si tratta di un’opera d’impronta filosofica.”
Matteo B. Bianchi, Linus, febbraio 2010

- “Feroce e divertente nel linguaggio, forte e originale nell’invenzione, questa commedia nera sul dolore del vivere e del morire si muove in deserti interiori popolati da fanatismo, violenza, paure, fino alla conclusione amara e perfetta nella sua necessità.”
Annabella d’Avino, Il Messaggero, 15 febbraio 2010

-“In quest’equilibrio tra uno sguardo panoramico e spietato sulle follie dell’America e la capacità di aprire squarci di autentica sofferenza nelle vite di tutti i suoi personaggi, grandi e piccoli, sta forse la ragione profonda del culto che circonda i romanzi di Everett. […] un autore davvero unico sulla scena statunitense degli ultimi anni.”
Luca Briasco, Alias, 9 gennaio 2010

- “[…] un romanzo diverso dai precedenti […] Deserto americano è forse più pop, ma di certo non perde la carica stilistica di uno scrittore in grado di stupire ad ogni pagina scoprendo anche un inaspettato umorismo.”
Alex Pietrogiacomi, Mucchio, dicembre 2009

- “[…] il romanzo è scorrevole e ben congeniato, un’avventura avvincente contaminata dai toni del thriller, della satira o del dramma esistenziale che non cede mai alla banalità.”
Flavio Camilli, fuorilemura.com, 23 novembre 2009

- “[…] un autore che con consumata abilità e leggerezza sa passare dalla commedia farsesca al racconto di fantascienza, all’action movie. […] il piacere della lettura deriva sia dalla prosa limpida di Everett, uno scrittore capace di gestire un fatto soprannaturale e una trama pastiche con la prosa distesa già apprezzata in Ferito, sia da un romanzo che porta a zonzo i lettori tra scenari ridicoli […].”
Sara Antonelli, l’Unità, 21 novembre 2009

- “A metà strada fra Edgar Allan Poe e Kurt Vonnegut: una vicenda di strazio esistenziale che alterna toni macabri a situazioni satiriche e grottesche.”
Antonio Monda, la Repubblica, 20 novembre 2009

- “La storia di Ted è una metafora della seconda chance americana.”
Francesca Frediani, D della Repubblica, 14 novembre 2009;


Materiali
- Booktrailer prodotto da I[C]am

- Rassegna stampa di Greenwich

 


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