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Corso di traduzione letteraria dall’inglese
Resoconto settima edizione, 2014


Di cosa si sono occupati i docenti esterni: Ottavio Fatica, Giovanna Granato, Federica Aceto, Cristiana Mennella, Giuseppina Oneto.

Giuseppina Oneto ha analizzato con la classe il primo capitolo di Towelhead di Alicia Erian (in italiano Beduina, Adelphi). Questo primo capitolo racchiude infatti un po’ tutti i problemi che il testo ha presentato in traduzione: la resa del titolo e di termini affini come scelta culturale, la resa del linguaggio bambino-adolescenziale della protagonista Jasira, degli insulti e dei giochi di parole. La Oneto si è soffermata in particolare sul primo capoverso: “My mother’s boyfriend got a crush on me, so she sent me to live with Daddy. I didn’t want to live with Daddy. He had a weird accent and came from Lebanon. My mother met him in college, then they got married and had me, then they got divorced when I was five. My mother told me it was because my father was cheap and bossy. When my parents got divorced, I wasn’t upset. I had a memory of Daddy slapping my mother, and then of my mother taking off his glasses and grinding them into the floor with her shoe. I don’t know what they were fighting about, but I was glad that he couldn’t see anymore”.
Di fronte a questo incipit allarmante un traduttore deve chiedersi subito: “Di quale famiglia stiamo parlando?”.
Ecco la sua versione: “Il fidanzato di mia madre si è preso una cotta per me e lei mi ha mandato a vivere con papà. Papà è nato in Libano e parla inglese con un accento strano [da notare l’inversione, come scelta culturale]. Mia madre lo ha conosciuto all’università, si sono sposati e hanno avuto me, poi hanno divorziato quando avevo cinque anni. È successo perché tuo padre è meschino e prepotente, mi ha spiegato lei. A me il divorzio dei miei non mi ha sconvolta per niente. Mi era rimasta impressa una scena: papà dava uno schiaffo alla mamma e lei gli strappava via gli occhiali, pestandoli sotto il tacco sul pavimento. Non so perché stessero litigando, ma ero contenta che almeno lui non ci vedesse più”.

*

Federica Aceto ha discusso con la classe le scelte di traduzione di alcuni capitoli di Girlchild (in italiano Bambina mia, 66thand2nd) della giovane autrice statunitense Tupelo Hassman. La forza del romanzo è nell’uso del linguaggio della voce narrante, la piccola Rory Dawn Hendrix, che vive con la madre in uno squallido campo caravan nella periferia di Reno, Nevada. Il romanzo è pieno di giochi di parole e di rimandi concreti alla cultura americana.
Qui troviamo Rory mentre compita le parole durante un esame:

“G-O-O-D,” I say, and grip the arms of my chair. The man, who is sitting at Mr. Lombroso’s
desk even though he is not the principal of Roscoe Elementary School, smiles and makes a note
with his brand-new pencil.
“Gear,” he says.
I swing my legs.
“G-E-A-R,” I say back to him, and swing my legs higher so they come out straight, so I
can see them. I’m wearing a skirt today. It has grey flowers and three ruffles and lace. I hate
this man who treats me like I’m a great big insect in his very own mason jar. I like my new skirt.
“Theme.”
“T-H-E-M-E.” I have to dress up for this man with the new pencils and briefcase whose
leather is almost as shiny as the gold locks he flipped open at once, SMACK!, when Mr.
Lombroso brought me in. I have to dress up for his briefcase.
“You’re doing very well,” he smiles at me. “Queen.”
I spell to the wall behind his head. I swing my legs after every letter, “Q-swing-U-swing-
E-swing-E-swing-N-swing.” I will for his pencil to break, for one of my tennies to fly off and hit
his round wire glasses.
“Wash,” he says but I can’t hear him right.
“Wash or watch?”
He is delighted. “Can you spell both?”

Federica Aceto traduce così:

«b-r-a-v-a» dico e afferro i braccioli della poltrona. L’uomo, che è seduto dietro la scrivania del preside Lombroso, anche se non è il preside della Roscoe, sorride e prende un appunto con una matita nuova di zecca.
«Congegno» dice.
Io dondolo le gambe.
«c-o-n-g-e-g-n-o» gli rispondo e dondolo le gambe più in alto fino a distenderle davanti a me, fino a che riesco a vederle. Oggi ho la gonna. Ha dei fiorellini grigi, tre volant e il pizzo. Odio quest’uomo che mi tratta come se fossi un grosso insetto rinchiuso in un barattolo. Mi piace la mia nuova gonna.
«Chiave».
«c-h-i-a-v-e». Mi devo vestire bene per quest’uomo con le matite nuove e la valigetta lucida come le fibbie d’oro che ha aperto di scatto, clac!, quando il preside Lombroso mi ha accompagnato nella stanza. Mi devo vestire bene per la sua valigetta.
«Stai andando molto bene» mi sorride. «Regina».
Compito la parola fissando la parete dietro la sua testa. Dondolo le gambe dopo ogni lettera, r-dondolo-e-dondolo-g-dondolo-i-dondolo-n-dondolo-a-dondolo. Vorrei che gli si rompesse la matita o che mi volasse via una scarpa e gli colpisse gli occhialini tondi di metallo.
«Coscia» dice, ma io non sento bene.
«Coscia o cosa?».
È tutto contento. «Mi sai dire come si scrivono sia l’una sia l’altra?».

*

Cristiana Mennella ha analizzato alcuni racconti della sua traduzione di Tenth of December di George Saunders (in italiano Dieci dicembre, minimum fax), autore americano celebre per il suo stile stratificato, ricco di invenzioni linguistiche e sintattiche. La Mennella ha fatto lavorare i ragazzi in gruppo.
Ecco un estratto esaminato (da “Sticks”):
“Every year Thanksgiving night we flocked out behind Dad as he dragged the Santa suit to the road and draped it over a kind of crucifix he’d built out of metal pole in the yard. SuperBowl week the pole was dressed in a jersey and Rod’s helmet and Rod had to clear it with Dad if he wanted to take the helmet off. On Fourth of July the pole was Uncle Sam, on Veterans Day a soldier, on Halloween a ghost. The pole was Dad’s one concession to glee. We were allowed a single Crayola from the box at a time. One Christmas Eve he shrieked at Kimmie for wasting an apple slice”.

La versione italiana (“Croci”):
“Ogni anno la sera del Ringraziamento seguivamo come un gregge papà che trascinava il vestito da Babbo Natale in giardino e lo sistemava su una specie di crocefisso che aveva costruito con un palo di metallo. La settimana del Super Bowl la croce portava una maglia da football e il casco di Rod e Rod doveva chiedere il permesso a papà se voleva riprendersi il casco. Il Quattro Luglio la croce diventava lo Zio Sam, il giorno dei caduti un soldato, ad Halloween un fantasma. La croce era l’unica concessione di papà all’entusiasmo. Potevamo prendere solo un pastello per volta dalla scatola. Una volta la notte di Natale papà sgridò Kimmie perché aveva sprecato uno spicchio di mela”.

*

Giovanna Granato ha analizzato la sua traduzione di Italian Ways (in italiano Coincidenze. Sui binari da Milano a Palermo, Bompiani) dello scrittore inglese Tim Parks, che è a sua volta un celebre traduttore, la voce inglese di Alberto Moravia, Italo Calvino, Antonio Tabucchi e Roberto Calasso.
La Granato si è concentrata sulla prefazione, in cui l’autore spiega le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quest’opera che “non è un libro di storia e non è propriamente un libro di viaggi, anche se parla di viaggi e di storia”.
Ecco l’incipit dell’inglese discusso in aula:
“A train is a train is a train , isn ’t it ? Parallel lines across the landscape, wheels raised on steel, the power and momentum of the heavy locomotive leading its snake of carriages through a maze of switches, into and out of the tunnels, the passenger sitting a few feet above the ground, protected from the elements, hurtled from one town to the next while he reads a book or chats to friends or simply dozes, entirely freed from any responsibility for speed and steering, from any necessary engagement with the world he’s passing through. Surely this is the train experience everywhere”.

E l’italiano:
“Un treno è un treno è un treno, no? Linee parallele che solcano il paesaggio, ruote che sfrecciano sull’acciaio, la forza motrice e l’impeto della pesante locomotiva alla guida di un serpente di carrozze che attraversa un dedalo di scambi, dentro e fuori le gallerie. Passeggeri seduti a qualche decina di centimetri da terra, protetti dal mondo esterno, catapultati da una città all’altra mentre leggono un libro, chiacchierano con gli amici o si limitano a sonnecchiare, esenti da ogni responsabilità di marcia o di manovra, da ogni doveroso impegno con il territorio che attraversano. Prendere un treno è questo, in qualsiasi parte del mondo.

 

Di seguito un interessante estratto della prefazione in cui Tim Parks parla della sua vita in Italia:
“I have now lived in Italy for thirty-two years. There are plateaus, then sudden deepenings; all at once a corner is turned and you understand the country and your experience of it in a new way. You could
think of it as a jigsaw puzzle in four dimensions; the ordinary three, plus time: you will never fill in all the pieces, if only because the days keep rolling by, yet the picture does seem more complete and above
all denser and more convincing with every year. You’re never quite a native, but you’re no longer a stranger”.

L’italiano di Giovanna Granato:
“Ormai vivo in Italia da trentadue anni. Terra di altopiani, improvvisi strapiombi e scorci inaspettati in grado di cambiare di botto la tua idea del paese e il tuo modo di viverlo. È una specie di puzzle a quattro dimensioni, perché alle tre ordinarie si aggiunge il tempo: le ore scorrono inesorabili, e giorno dopo giorno il quadro appare più completo e soprattutto più solido e convincente. E tu non riuscirai mai a incastrare tutti i pezzi, per colpa di questa costante mutazione. Non sei ancora del posto ma non sei più uno straniero”.

*

Ottavio Fatica
Poesie analizzate: One Art di Elizabeth Bishop; una selezione di limerick di Edward Lear in diverse traduzioni; Temptation di Nina Cassian; The Windhover. To Christ our Lord di Gerard Manley Hopkins.





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