John Cheever, Lo scandalo Wapshot Non c’è niente di rassicurante nelle curvature
stonate e oblique, nessuna speranza per chi sfugge dal destino che si
è costruito, e la poesia rimane l’unica legge che governa
il mondo. Ecco cosa vuole dirci Cheever nello Scandalo Wapshot,
il suo secondo romanzo e anche il suo libro più tormentato, il
diario di faticose notti insonni con i sensi annebbiati dall’alcol:
un manifesto di insoddisfazione, il vagheggiamento e la demonizzazione
della soluzione-suicidio. Il romanzo nasconde, nel dare un seguito, seppur
in piena autonomia narrativa, alle vicende della famiglia Wapshot di St
Botolphs, la vivisezione di esistenze che danzano come metafore iperboliche
nel mare agitato della vita. Lo scandalo Wapshot si configura
come una prolungata riflessione sull’apparenza – “ciò
che era successo non era successo” –, una scomposta rincorsa
della luce, una salita in punta dei piedi alla riscoperta di percorsi
che partono dall’interno. Cheever descrive un mondo, il suo, lo
scortica a fondo scoperchiando il subbuglio trepidante dei sensi: tutti
gli schemi e le speranze si sono frantumati, lo spettro del cancro e dell’omosessualità
cominciano a puntellare le fondamenta. E in questo teatro in cui comicità
sferzante e drammaticità hanno il respiro delle grandi tragedie
shakespeariane abbandonarsi al sesso o al bicchiere è la via d’uscita
più facile per spegnere l’interruttore della realtà.
Così quando il giovane Coverly Wapshot scopre, analizzando le occorrenze
delle parole nelle poesie di Keats, che nella poesia c’è
dell’altra poesia, quando il dottor Cameron smonta i vagheggiamenti
extraterrestri di quegli anni – “voi non ce lo manderete mai
un dannato uomo sulla dannata luna” –, o quando l’anziana
Honora, al termine della sua fuga a Roma e dopo essere stata ricevuta
dal papa, sancisce la sua resa, abbiamo la certezza che si tratta di un
Cheever diverso, meno concentrato sulle dinamiche suburbane e più
teso, introspettivamente, alle crude evidenze dell’amore e della
vita. |