John Cheever, Il rumore della pioggia a Roma

17 ottobre 1956. I Cheever – John, la moglie Mary, incinta di quattro mesi, e i due figli Susan e Ben – s’imbarcano sulla Conte Biancamano diretti in Italia: Roma sarà la loro nuova casa per dieci mesi. Palazzo Doria, quarto piano: un’unica enorme stanza divisa in tre da pannelli mobili di stoffa. Niente frigorifero, niente acqua calda. Il soffitto è d’oro, alle pareti ritratti a grandezza naturale, le finestre lasciano penetrare luce rosata. Una luce trasparente che Cheever non dimenticherà mai e che fino alla fine dei suoi giorni tornerà a toccare. È una Roma fredda, ferita, voci incomprensibili per le strade; Roma fa paura, diventa il simulacro della nostalgia di casa per gli emigrati americani che vivono distaccati nelle loro comunità ovattate. Il Nuovo Mondo è lontanissimo. Cheever invece preferisce fare il turista, memoria del presente e di un passato che non diventerà mai remoto, un curioso indefesso d’odori e pensieri. E così cerca collegamenti, sinergie e appigli, e inventa piazze, paesi di provincia con le loro storie assurde, cognomi, papi, parole della bella lingua che cercherà di far sua e più tardi d’assimilare nella scrittura: il Cheever “italiano” è infatti labirintico, secco, delicatamente verosimile e palpitante nei salti improvvisi. Questo esperimento sarà il trampolino della sua migliore stagione letteraria e, col suo ruvido tributo, Roma diventa eterna nella metafora dell’emarginazione, del sentirsi estranei, della pioggia diversa e impercettibile, e degli occhi dilatati che vedono altro.


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