John Cheever
O città dei sogni infranti

Un’unica cadenza, piacevolmente ossessiva, un unico ritmo, soffuso ma incalzante. Di ciò che accade rimane un indelebile indizio, una traccia nascosta. Non c’è posto per l’ossessione, non c’è tempo per recriminare sulla propria sfortunata esistenza di provincia. Il salto, l’anelito, il richiamo mellifluo della grande città, del gran vivere, esaltano la stonatura, storcono la normalità, riproiettano nella quotidiana ripetitività. Non c’è sorte diversa per la propria sorte.
I personaggi appaiono smarriti nell’avvicendarsi calmo e immobile delle loro storie, nel ritorno ciclico a sé stessi. Sono dominati dalla storia, dal loro criptolalico destino che plasma i racconti, dall’inizio. E ce ne accorgiamo, lo sappiamo, ne siamo certi, ci siamo abituati, noi tutti, così simili ai personaggi di Cheever; eppure, leggiamo oltre con compassato ma avido interesse. È questa la grandezza di Cheever: renderci consapevoli che non c’è sorte diversa dalla
nostra sorte.


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