Alexander
Trocchi, Il Libro di Caino
“E presto Abele ebbe grandi armenti, macelli
ad aria condizionata, magazzini per la carne e fabbriche di scatolame,
mentre le coltivazioni ammalate di Caino andavano perse. E ciò
fu chiamato peccato.”
Joseph Necchi incarna Caino, il maledetto antieroe della Bibbia, il gran
nemico. Il Libro di Caino è il suo rotocalco, il suo diario.
Le parole sconnesse, profonde e introspettive di un tossicodipendente
che vive a Flushing, New York, su una chiatta ormeggiata al molo 72. Questo
luogo mobile ma immobile sarà il non-luogo impalpabile della rappresentazione.
C’è ansia di movimento, desiderio di scrollarsi il peso che
opprime l’esistenza. Ma è tutto così statico ripetitivo,
martellante. È il mondo dentro il mondo di chi vive nella droga,
il mondo dei ricordi che trova negli episodi insignificanti il trampolino
per l’alienazione.
Joe è l’incapacità di vivere, la dichiarazione del
fallimento, la genialità dello scrittore che si automaledice. Caino
rappresenta il malcontento, l’approccio alto con l’irraggiungibile,
la critica e la ribellione, la storia e la maledizione.
Domina su tutto il ritmo ovattato della solitudine, lo ieratico ondeggiare
della chiatta, la descrizione della ritualità del drogarsi, del
sentirsi alieni ma dipendenti dal mondo. Il sesso. Moira, la moglie di
un matrimonio in frantumi. Moira è il veicolo del ricordare; il
padre, il complice distaccato dell’estraniamento. Gli amici Jody,
Tom, Fay, Geo sono essenziali, interscambiabili comparse. La madre onnipresente,
indimenticabile, dolce presenza.
Rimarrete intrappolati nella cinematografica confessione che Trocchi-Caino-Joe
ci ha dato di sé, diverrete i suoi confessori, i depositari della
sua cronistoria obliqua “sempre con la consapevolezza che nulla,
includendo di certo anche questa esposizione, finisce”.
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