John
Cheever, Bullet Park
E Cheever, regista e faber, guarda distaccato:
una lente di ingrandimento, pochi altri semplici utensili. Il materiale
delle idee, e delle situazioni normali di una ieratica normalità
di periferia. Estrarre dinamismo ed emozioni dalla staticità, sì
è questo il suo paradigma. Ecco come: colori pastello, paesaggi
incantati, tracce di passaggi umani, forme che traggono la loro esistenza
dalla creta; vite, vite normali che nessuno racconterebbe.Questo libro
ha il tono e la delicatezza di una visione, una prosa tenera, una luce
che ci illumina a intermittenza, il ritmo del singhiozzo, la frenesia
delle stazioni di provincia. E poi nomi. Nomi che incatenano vite in maniera
indissolubile: Eliot Nailles (nail in inglese significa chiodo),
Paul Hammer (in italiano martello), vicini di casa nel sobborgo
di Bullet Park, vite distanti e diverse. E Cheever, regista e faber, batte,
percuote con compiaciuta ironia quel martello, strazia il chiodo. Molto
succede, nulla cambia. Bullet Park, prima e meglio di American
Beauty, è un vero e proprio inno-denuncia, all’ambigua
e contraddittoria tranquillità della periferia americana. È
la denuncia di una spia, una lurida spia che non smette di ridere e che
proprio alla fine ci confessa di essersi inventato tutto. |